Prosegue il nostro viaggio nel mondo della musica indipendente e approdiamo a Bergamo per conoscere Paolo Andreoni, giovane cantautore che ha dato alla luce il suo secondo disco intitolato “Un nome che sia vento” in cui la canzone d’autore, l’elettronica e il rock si mescolano ad arte, votandosi alla sperimentazione e all’essenzialità: il risultato? Un disco di ottima fattura le cui sonorità, in certi frangenti, rivisitano la tradizione dei popoli nomadi del deserto sahariano che nei millenni hanno sapientemente colto le sonorità mediterranee unendole con quelle arabe, mantenendo però una loro caratteristica strumentale che non ha solo origine nella tradizione autoctona berbera. Una passione nata non per caso, avendo vissuto dapprima in Marocco e poi in altri paesi dell’Africa occidentale (Guinea Bissau, Mali, Senegal). In “Un nome che sia vento” poesia, intimismo e rabbia sono i temi che la fanno da padrone, con i testi che descrivono attese e tormenti, fughe e smarrimenti. “Sono canzoni a metà tra realtà e immaginazione, tra confessione e utopia. La città è sempre lo sfondo, ma in realtà è il luogo da cui fuggire, o un luogo che si prova a immaginare diverso da quel che è”. Certo, è più facile illudersi che fare i conti con la realtà e lo sa bene Paolo Andreoni autore e interprete di questo disco composto da undici episodi in cui influenze diverse si miscelano tra loro e i confini si abbattono.

Paolo mi parli di te e com’è nata l’idea di metter su questa band?
Ti parlerò della band. Mi è più facile. Parlare di me mi risulta sempre difficile. La band c’è dal 2009 e resiste fino ad oggi tra varie vicissitudini. L’ho formata con amici musicisti che avevo conosciuto in esperienze musicali precedenti. Poi ho deciso di metter mano alle canzoni che avevo scritto negli anni ed è nato il primo disco, piuttosto variegato, in cui si sente l’entusiasmo per la prima vera esperienza di studio, ma a cui manca una direzione stilistica precisa. Certo, per essere un’opera prima ha una qualità che anche oggi mi sorprende. Arrangiamenti ben pensati ed eseguiti meglio, con grande attenzione alle atmosfere e cura dei particolari.

Un nome che sia vento” è il tuo secondo album. Un lavoro che ha come orizzonte geografico il deserto: quello reale, quello che appare in controluce nelle metropoli e i nostri personali deserti quotidiani. Mi racconti la genesi di questo lavoro?
Il secondo disco ha un colore più definito. È un notturno. Questo l’abbiamo scoperto strada facendo. Le canzoni hanno un tono intimista, ma con questo non intendo un rifugiarsi nel proprio io e basta. È un modo per dire che è più personale e mi ci identifico di più. Ci sono canzoni in cui i sentimenti sono i protagonisti, tendenzialmente al negativo, nel senso che le canzoni descrivono un vuoto, un’assenza di qualcosa o qualcuno. Poi ci sono altre canzoni in cui il discorso è su di noi, sul rapporto tra l’individuo e la collettività. Sono canzoni a metà tra realtà e immaginazione, tra confessione e utopia. La città è sempre lo sfondo, ma in realtà è il luogo da cui fuggire, o un luogo che si prova a immaginare diverso da quel che è. Ovviamente il riferimento è Milano, dove ho vissuto per diversi anni e di cui conosco certe atmosfere e certi panorami in cui è facile sentirsi anonimi. Il titolo Un nome che sia vento fa riferimento a questo bisogno di solitudine, che è anche un desiderare la libertà. Libertà di sentirsi soli e di continuare a cercare. Il disco ha delle atmosfere in cui bisogna voler entrare con un atto di volontà, a volte. Chiede il suo spazio, oltre che il suo tempo. Ci sono degli strumentali che scandiscono il succedersi delle canzoni e che aiutano questo abbandonarsi alle atmosfere e ai colori del disco. Nel complesso è un album più “d’autore”, anche se ha una produzione più grezza e immediata.

Come nasce la tua passione per l’Africa e il suo sound?
Nasce per ragioni biografiche. Abbiamo vissuto, io e la mia famiglia, in diversi paesi africani per qualche anno. La passione per le musiche di quella zona è qualcosa di spontaneo, che poi ho coltivato negli anni europei, complice anche mio fratello che è un grande cultore, oltre che grande curioso. Il sound africano di questo disco è in alcuni degli strumentali; c’è il rimando al chitarrismo maliano, che per me è un esempio di musica che unisce grazie e mistero. Ritmo e ipnosi.

Quali sono gli artisti che più ti hanno influenzato nella tua formazione?
Fabrizio De André su tutti. Poi molti altri: la psichedelia 70 (Gong, Soft Machine), i Doors, i Radiohead, Robert Wyatt… Si arriva poi a Bob Marley, varia musica africana e classica… Insomma, sono un ascoltatore che non si affeziona ai generi. Riesco ad amare con passione musiche molto diverse, purché vi trovi qualcosa di bello ed emozionante.

Qual è il tuo rapporto con la tecnologia? Ritieni che si possa costruire una carriera solo attraverso la Rete o Internet può supportare solo qualcosa che già c’è?
Con la tecnologia ho un pessimo rapporto. Non ho pazienza. È una lacuna che non riesco a colmare, pur sapendo che sbaglio. Internet fa molto se hai molto. Se hai dei buoni brani e se riesci a proporti dal vivo. Il palco, o più in generale i concerti, non ingannano. Questa è una cosa che mi è stata chiara anche in questo tour che si è appena concluso. È andato molto bene proprio perché eravamo una band con qualcosa da presentare, e l’abbiamo fatto al meglio delle nostre possibilità. Quando è così il pubblico ti segue e si interessa al progetto. Io non sono un fan della rete. Non riesco ad avere tutta questa curiosità. Mi piace la performance.

Ultima domanda: quali sono le vostre ambizioni?
Per ora pensiamo a un tour in autunno. Il resto si vedrà. A me basterebbe poter suonare molto dal vivo. Il resto poi viene da sé, su questo non ho dubbi. E poi vorrei scrivere il terzo disco, di cui ancora non c’è nulla, se non i silenzi.

Un nome che sia vento
Paolo Andreoni: voce e chitarra acustica
Davide Terrile: basso, sinth, loop, chitarre elettriche e classiche
Ospiti speciali:

Davide “Tiddu” Cornolti: batteria
Roberto “Bob” Ambrosioni: tastiere
Mauro “Magico” Mazzola: chitarra elettrica

 

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