Barriere, pali, divieti, transenne, dissuasori, cancelli, simboli che rimandano materialmente sensazioni di ostilità e diffidenza e riducono il senso di coesione e solidarietà collettiva: è l’architettura delle metropoli contemporanee che incita alla violenza e amplifica le tensioni e le differenze sociali. Un design urbano da “trincea” improntato sullo scontro e la negatività secondo lo studio “Urban landscape’s power to hurt or heal” svolto a Berlino, Beirut, Belfast e Amsterdam dall’Università di Manchester nel Regno Unito. Autore dell’analisi è Ralf Brand , docente presso la School of Environment and Development dell’ateneo, che ha rilevato nelle quattro città – selezionate come scenari di specifici disagi sociali, etnici e religiosi – i segni distintivi di un’architettura aggressiva che ha l’effetto di una “bomba” emotiva pronta ad innescare contrasti e a far esplodere ansia e angoscia.

La lista degli “errori” architettonici stilata da Brand è lunga e originale. Il presupposto è che le città sono capaci di ispirare emozioni divergenti al nostro passaggio. Ma la conclusione è che spesso si tratta di reazioni opposte a quelle che i progetti di architetti e designer si propongono di scatenare. Un esempio? Il ponte realizzato sull’autostrada Westlink a Belfast è stato costruito per permettere il passaggio pedonale tra il centro urbano e il Royal Victoria Hospital ma si è trasformato in un luogo privilegiato per il lancio di sassi e oggetti contundenti tra le storiche fazioni religiose che da sempre insanguinano la roccaforte dell’Irlanda del Nord. L’architettura comunica gli equilibri di potere che regolano la società: se a Beirut per i designer è difficile scegliere tinte e colori che non siano stati adottati da fazioni politiche; ad Amsterdam, secondo le interpretazioni suggerite dallo studio, l’imponente facciata del palazzo della Polizia nel quartiere Slotervaart lancia messaggi minacciosi e di controllo “statale” alla vicina moschea, creando un clima di inimicizia.

L’elenco include le idee restrittive e poco funzionali, come le strutture divisorie in ferro battuto erette per evitare che gli angoli dei palazzi vengano utilizzati come bagni pubblici: “Non fanno altro che creare l’impulso contrario: la voglia di trasgredire, saltare l’ostacolo e usare il luogo come un wc a cielo aperto”, si legge tra le pubblicazioni universitarie firmate da Brand e disponibili sul sito dell’Economic and Social Research Council che ha finanziato il progetto di ricerca nel Regno Unito. Una mappa dell’odio urbano tra paletti e contenitori per la spazzatura che diventano armi appetibili per sfogare la violenza durante gli scontri di una manifestazione o semplicemente si convertono in obiettivi vulnerabili al vandalismo più spicciolo. Accanto alle arterie senza riferimenti o alle rotonde prive di qualsiasi identità che veicolano la circolazione, tipiche degli anonimi quartieri periferici e colpevoli di alimentare l’alienazione, non invogliando a passeggiare e a vivere insieme la strada. “Il design non può risolvere i conflitti – è la tesi di Brand – ma se usa l’intelligenza servirà ad appianare le discrepanze e a favorire la convivenza pacifica. Deve spingere a condividere e non a separarsi, deve suggerire e non vietare”.

di Adele Brunetti

Articolo Precedente

Il volantino intimidatorio degli amici di De Pedis

next
Articolo Successivo

Sanità solidale con società immobiliari

next