Quando rapì Emanuela Orlandi, Enrico De Pedis aveva appena 30 anni, quando è stato ammazzato 36, ma tutti lo consideravano già il capo della banda della Magliana. Anzi dei “testaccini”, il gruppo più potente e occulto della malavita romana, gente che a torto o ragione fa parte della storia d’Italia Nel suo libro di memorie Sabrina Minardi, l’ex amante che per prima lo ha accusato di aver rapito la ragazzina vaticana, spiega in modo esplicito il motivo di così mirabolante carriera: “Lo sapevano tutti che Renatino era l’uomo del Vaticano”. Cosa vuol dire per un boss essere uomo del Vaticano? Nessuno lo sa, ma De Pedis lo era.

Qualcuno è tuttora convinto che fosse figlio del cardinal Poletti, il vicario di Roma assai vicino a Giulio Andreotti, proprio quello che venti giorni dopo la sua sciagurata morte a Campo de’ Fiori firmò il nullaosta che gli ha consentito di riposare in pace nella cripta della chiesa di Sant’Apollinare. Nessuno riusciva a darsi altra spiegazione: Renatino era figlio di Poletti. Figlio no, forse affiliato. Di sicuro sentimenti paterni legavano il cardinale a quel ragazzo che don Pietro Vergari aveva conosciuto in carcere e con il quale, racconta Sabrina, si appartava a parlare per ore. Discorsi fitti, a bassa voce, come se tra i due ci fosse un’intesa che nessuno poteva condividere. Renatino si “presentava bene”, golf di cachemire e completi Caraceni. Non fumava, non beveva, sniffava raramente soltanto quando si chiudeva in casa con Sabrina per fare l’amore.

Anche quel soprannome, Renatino, non aveva niente a che vedere con nomignoli come il Negro, Zanzarone, Saponetta. De Pedis, si atteggiava a manager, era davvero il Dandy descritto in Romanzo criminale da Giancarlo De Cataldo. Ad aiutarlo erano anche i lineamenti delicati, da ragazzo perbene, come appare nella foto che fino a ieri spiccava sulla sua tomba di marmo, incastonata in una corona di zaffiri. L’ingrandimento di una fototessera, la stessa che nel giugno 1983, subito dopo la scomparsa di Emanuela, fece sobbalzare il comandante del Reparto operativo di via Inselci, il colonnello Domenico Cagnazzo: assomigliava in modo sorprendente all’identikit dell’uomo della Bmw visto in corso Rinascimento due ore prima che la ragazzina sparisse. Ma Renatino non era figlio di Poletti, a dire il vero il padre lo chiamavano Caino perché aveva ammazzato il fratello e lui, che aveva la vocazione del capo, si era fatto carico della famiglia. Per fare qualche soldo si arrampicava con Fabiola Moretti, amante di Abbruciati e poi moglie di Mancini, sulle pendici del Gianicolo. Andavano a caccia di vipere da rivendere al farmacista di piazza della Scala. Con la droga e le rapine aveva comprato un ristorante a Trastevere, la boutique di Enrico Coveri, un’oreficeria all’Appio, un supermercato all’Ostiense, una villa in Sardegna, decine di appartamenti. In quello di via Vittorini all’Eur alla fine del 1984 fu arrestato.

Ci arrivarono pedinando la Minardi che viveva con lui, l’indirizzo era saltato fuori dalla causa di separazione tra lei e il calciatore Bruno Giordano. Poi tramite prestanomi, anche il Jackie ‘O di via Veneto. Quando lo hanno ammazzato, per vendicare la morte di Edoardo Toscano, voleva uscire dal giro: ormai, grazie al racket dei video-poker, non aveva più bisogno di fare rapine. Renatino era entrato nel “gioco grande”, come lo definiva Giovanni Falcone: frequentava Calvi, il banchiere dagli “occhi di ghiaccio”, a organizzare feste e festini era quel suo amico sardo, piccolino, capace di intrufolarsi dappertutto, Flavio Carboni, l’uomo che oggi conosciamo come il capo della P3. Dicono che andava a cena con Paul Marcinkus, il presidente dello Ior caro a papa Wojtyla. Sabrina, irriverente, racconta di aver procurato ragazze all’aitante vescovo convinto che “non si serve la Chiesa soltanto con gli Ave Maria”.

Racconterà poi che nel 2008 aveva accompagnato Renatino nella casa di Andreotti in Corso Vittorio. Ma la donna, ora indagata per il sequestro Orlandi, si sa non sempre è attendibile. Su, su, sempre più su: quella di De Pedis, di Emanuela, di Calvi è una storia incrociata. Storia di mafia, non di malavita, dietro le quinte c’era Pippo Calò, il siciliano venuto a Roma per risolvere i guai economici di Cosa Nostra. Guai grossi, 250 milioni di dollari scomparsi, consegnati al Vaticano e puff, volatilizzati. Che fine avevano fatto? La logica indica una sola strada: quella che dalle Mura Leonine conduce in Polonia, patria cara a papa Wojtyla, dove la battaglia di Solidarnosc avrebbe fatto cadere il governo Jaruzelsky. Se cadeva Jaruzelsky – Marcinkus ne era convinto – cadeva tutto il blocco sovietico. Il “gioco grande”. Ma a Cosa Nostra non piace farsi fottere, bisognava trovare una strada per arrivare al Vaticano. Forse Renatino gliel’ha indicata. Oppure qualcuno “ha indicato” a lui di rapire Emanuela.  Un ricatto a Wojtyla? Una trattativa andata in porto? È l’unico vero mistero che custodiva quella tomba.

Il Fatto Quotidiano, 15 Maggio 2012

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