Il sì di Barack Obama ai matrimoni gay verrà probabilmente ricordato come l’evento più importante delle presidenziali 2012. Forse non quello decisivo (l’economia resta il tema di queste elezioni), ma sicuramente quello più carico emotivamente, più capace di far sentire come il tempo sia passato e come anche l’ultimo dei grandi movimenti per i diritti civili USA stia arrivando alla fine del suo percorso. I pioneri della militanza gay, nel 1969, consideravano audace pensare a una legge antidiscriminazione. Ancora 16 anni fa un presidente democratico, Bill Clinton, poteva appoggiare un atto discriminatorio come il “Defense of Marriage Act”, la norma che definisce il matrimonio come unione esclusiva tra un uomo e una donna. Oggi un altro presidente democratico va in televisione e dice, semplicemente, che i gay e le lesbiche “dovrebbero potersi sposare”.

L’America si è svegliata il giorno dopo l’annuncio di Obama sapendo che qualcosa di storico è successo. Non c’è stato talk show del mattino, non c’è stata casa, scuola, luogo di lavoro, non c’è stata strada del Paese (persino la grande televisione di Times Square, a New York, continua a rimandare l’immagine dell’intervista al presidente), in cui non si sia parlato di matrimoni omosessuali. Molti fanno il confronto storico con l’appoggio dato da Lyndon Johnson nel 1964 al movimento dei diritti civili. Altri ricordano come il tema dei matrimoni gay – l’opposizione ai matrimoni gay – fu strumentale alla rielezione di George W. Bush nel 2004. Il senso di quanto successo l’ha però riassunto un attivista gay, Chad Griffin della Human Rights Campaign, che ha detto: “Non importa come la pensi. Ogni americano ricorderà per sempre dove si trovava quando ha visto il presidente degli Stati Uniti dire che una persona omosessuale deve essere trattata come tutti gli altri esseri umani”.

Oltre le espressioni emotive del momento, oltre i richiami al passato, quello che si cerca di capire ora è quanto la dichiarazione di Obama conterà nelle elezioni di novembre. E’ chiaro che il presidente non aveva molte vie d’uscita. Dopo l’appoggio caloroso e senza ambiguità dato ai matrimoni gay dal vicepresidente Joe Biden (cui hanno fatto eco altri membri dell’amministrazione: il segretario alla casa Shaun Donovan e quello all’educazione, Arne Duncan), Obama non poteva più tacere. Una sua presa di posizione, pro o contro, veniva chiesta da più parti, dai rivali politici ma soprattutto dagli amici, preoccupati che il suo silenzio potesse essere interpretato come una forma di attendismo machiavellico. La presa di posizione alla fine è venuta, e non poteva che essere positiva. Il primo presidente afro-americano ha per forza di cose preso le parti dell’ultimo movimento per i diritti civili, che pare del resto godere ormai dell’appoggio della maggioranza degli americani (un sondaggio Washington Post/ABC News dello scorso marzo rileva che il 52% degli americani è favorevole ai matrimoni gay; il 43% si dice contrario).

Ciò non toglie che, sebbene Obama abbia cercato di dipingere la scelta come “un atto personale, che mi è stato chiesto anche da mia moglie e dalle mie figlie”, la dichiarazione di ieri sia stata ponderata e soppesata da tutto il team che segue il presidente. Da un punto di vista politico, appoggiando i matrimoni gay, Obama spera di consolidare, motivare, dare una ragione di entusiasmo alla sua base elettorale. Non si tratta ovviamente soltanto della comunità omosessuale, già da tempo allineata e che con ogni probabilità non avrebbe fatto mancare il suo voto a novembre. Si tratta, soprattutto, degli studenti di college, dei giovani, della fascia di età 18-29 del cui appoggio Obama ha disperatamente bisogno se vuole essere rieletto. Questo segmento elettorale è in larghissima parte a favore dei matrimoni gay (il 65% dei giovani americani li approva). Dichiarando il suo appoggio, Obama spera di conquistare definitivamente questo voto, e di dare ai più giovani tra i suoi elettori la spinta propulsiva, l’entusiasmo, il senso di una scelta morale che quest’anno sembrano ancora mancare.

C’è poi l’aspetto economico. Come ha mostrato la rivista Advocate, un grande finanziatore di Obama su sei è omosessuale (in gergo politico si chiamano “bundlers”, sono coloro che mettono assieme più di mezzo milione di dollari, raccolti da vari donatori e fonti). Sono gay “bundlers” come Dana Perlman, avvocato di Los Angeles, l’interior designer Michael S. Smith, il dirigente di HBO James Costos. Sono gay o lesbiche finanziatori importanti come Sally Susman, executive di Pfizer, o il filantropo texano Eugene Sepulveda (entrambi donano 500 mila dollari). Sono gay, infine, il direttore finanziario della campagna per la rielezione di Obama, Rufus Gifford, e il tesoriere del partito democratico, Andrei Tobias. Nelle ultime settimane finanziatori e “bundlers” gay diventati sempre più insofferenti, di fronte ai silenzi e alle timidezze di Obama. La dichiarazione di ieri, quindi, riporta il sereno e, con ogni probabilità, porterà un afflusso ancora più consistente di dollari nelle casse del presidente.

Ci sono ovviamente anche i rischi che una dichiarazione come quella di ieri può comportare. Proprio il giorno prima del sì di Obama, gli elettori del North Carolina sono andati alle urne e hanno votato, a grande maggioranza, un emendamento alla Costituzione dello Stato che esclude ogni possibilità di unione omosessuale. Il North Carolina è uno degli Stati che Obama ha conquistato nel 2008 e che deve assolutamente riconquistare nel 2012 se vuole tornare alla Casa Bianca. Lo zoccolo duro moderato e conservatore di queste zone (come pure di altri Stati in bilico che i democratici devono assolutamente aggiudicarsi: Virginia, Ohio, Pennsylvania) potrebbe non accogliere con favore la scelta di Obama, e ritirargli il suo appoggio. C’è poi il problema degli afro-americani. Il 97% degli elettori neri americani sceglie Baraci Obama. Si tratta però di un segmento di voto piuttosto conservatore sui “social issues”, sulle questioni morali, che potrebbe non accogliere con favore le aperture ai matrimoni omosessuali.

Ecco dunque che la scelta di Obama, per quanto dovuta, in qualche modo necessaria, è anche una scommessa politica. Il presidente l’ha fatta sperando che i vantaggi superino gli svantaggi, e che da qui a novembre la questione si sgonfi e l’America torni a parlare di altre cose (in primo luogo lavoro ed economia). Nelle speranze sue, e di chi l’ha aiutato a prendere questa decisione, dovrebbe restare tra cinque mesi soprattutto una cosa. E cioè l’immagine del primo presidente degli Stati Uniti che mette da parte titubanze, pregiudizi, timidezze, e si mette dalla parte della Storia.

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