“Chiedo perdono a tutti”, lascia scritto prima di impiccarsi, “visto che sono un fallito ho deciso di farla finita”: è un custode di 48 anni, licenziato e sfrattato dall’alloggio nel cash&carry in cui vive con tutta la famiglia. Nello stesso giorno – ieri, 8 maggio – si tolgono la vita un operaio edile e un piccolo imprenditore, entrambi sessantenni. Il giorno prima, un commerciante di 48 anni, socio di una ditta di ricambi per elettrodomestici, si è impiccato nel retrobottega del suo negozio, e un ex commerciante di 52 anni è stato trovato appeso a una giostra per bambini in un parco pubblico. Anche un muratore di 44 anni ha tentato di impiccarsi nel giardino di casa, fermato della figlia quindicenne che lo ha sorretto per le ginocchia fino all’arrivo dei soccorsi.

Dall’inizio dell’anno sono 37 i suicidi di persone gravate da debiti, martoriate da sfratti, licenziamenti e cartelle esattoriali. Si tratta perlopiù di uomini di mezza età, con figli a carico. Li si tira dalla parte di Confindustria, li si addebita alla “difficoltà del fare impresa”, ma sono piccoli, piccolissimi artigiani, partite Iva minimali, precari, disoccupati oppressi dalla vergogna, senza spiragli per il futuro e, soprattutto, senza un orizzonte politico condiviso in cui inscrivere la propria condizione.

“C’è rischio di emulazione?” si chiedono i conduttori di talkshow e gli articolisti. “Si può paragonare l’ondata odierna al fenomeno di France Telecom tra il 2008 e il 2009?” “C’è un parallelo con la crisi del ’29?” I sociologi rispolverano il vetusto “effetto Werther”, quando alla pubblicazione del grande romanzo epistolare di Goethe, nel 1774, seguì un’impennata di suicidi. Se ne parla, ma come di una questione lontana, tecnica, che non prevede una grammatica della decenza; tutt’al più generiche formule di solidarietà alle “vedove bianche”, già racchiuse, fin dalla nominazione, nell’anestetico del luogo comune.

Nella puntata della Zanzara di ieri, la trasmissione di Radio24, i conduttori hanno ingaggiato un siparietto con un presunto impresario di pompe funebri: “Come vanno gli affari, è un settore in crescita? No? Ma allora non è vero che c’è una moria di gente, che la gente si suicida.” Un’uscita appena più sconcia della frase di Monti di un paio di settimane fa: “Suicidi in Italia? Neanche tanti, in Grecia ce ne sono stati di più”; o del commento odierno circa la responsabilità dei governi precedenti. Che dimostra, clamorosamente, la mancanza di quell’assunzione di responsabilità che deriva dallo spondeo latino: il sentirsi tenuti a rispondere davanti alla collettività cui si è legati (ob-ligati) da un contratto. Vale per il premier e per tutti i partiti dell’arco costituzionale: per tutti i politici che siedono in Parlamento.

Dopo il default del 2001, in Argentina divenne consueto lo spettacolo di bambini abbandonati che si prostituivano lungo le avenidas di Buenos Aires, ed Hebe de Bonafini, la presidente delle Madri di Plaza de Mayo, disse che era una questione politica rifiutarsi di nominarli come niňos de rua, “bambini di strada”, perché in quel modo già li si condannava. “Non sono della strada”, diceva, “sono nostri. Se li pensiamo come nostri bambini, che vivono in strada, che cercano cibo nella spazzatura, che salgono sulle macchine di chiunque, allora ne abbiamo la responsabilità”. Così come abbiamo la responsabilità della parole che usiamo.

Se chiamassimo “nostri” i padri di famiglia, gli operai, i muratori, i piccoli imprenditori, gli artigiani, i lavoratori autonomi disoccupati che si suicidano per disperazione, lo spazio discorsivo smetterebbe di essere ammorbato da statistiche, geremiadi del “mai più”, speculazioni e witz variamente disgustosi: si proverebbe invece a cercare risposte politiche e soluzioni concrete, nell’ambito della dignità e della decenza.

In uno tra i suoi studi più importanti, dedicato per l’appunto al suicidio, uno dei padri della sociologia, Émile Durkheim, spiegava come quello che appare un atto individuale sia dovuto in realtà alla rottura degli equilibri sociali. “Il suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione dei gruppi sociali di cui fa parte l’individuo”, scriveva nel 1897. “È la costituzione morale della società a fissare in ogni istante il contingente di morti volontarie […]. Il malessere di cui soffriamo non viene quindi dal fatto che le cause obiettive di sofferenza siano aumentate di numero o d’intensità; testimonia non una maggiore miseria economica, ma un’allarmante miseria morale”.

Il suicidio è sostanzialmente un omicidio mancato, sostenevano tanto Durkheim che Freud: l’uomo si uccide rivolgendo contro di sé l’aggressività che ha cumulato verso gli altri. Oggi questa aggressività sociale – che una volta trovava legittima articolazione nell’azione politica, nella possibilità di riflettere sulle cause e di agire una difesa – viene criminalizzata, resa muta, impotente. Si diventa colpevoli, individualmente, del proprio fallimento. Forse, prima ancora di Monti, prima degli esponenti del governo precedente, prima dei vari Feltri con i loro squallidi tweet, dovrebbero essere i politici della cosiddetta sinistra a chiedersi cosa hanno sbagliato. 

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