Perché a Milano tanti politici finiscono citati nelle inchieste di ‘ndrangheta, ma nessuno o quasi risulta indagato e men che meno sotto processo? La risposta, indiretta ma chiara, arriva da Ilda Boccassini, capo della Direzione distrettuale antimafia: “Il nostro metodo è di accusare qualcuno solo quando siamo certi di poterlo mandare a processo, sapendo che poi un’eventuale assoluzione causata da prove deboli è un regalo alla mafia e una sconfitta non per il pm, ma per lo Stato”.

Abitualmente schiva verso i giornalisti, Ilda Boccassini è intervenuta all’Università Bocconi per la presentazione del libro “Il contagio” (Laterza), scritto dai colleghi magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, che da Reggio Calabria hanno condotto insieme alla Dda di Milano la grande inchiesta Crimine-infinito, che il 13 luglio 2010 ha portato a otre 300 arresti tra Calabria e Lombardia. Ridisegnando il volto di una ‘ndrangheta che, sul modello di Cosa nostra negli anni Ottanta, si è data una struttura gerarchica a coordinare l’espansione criminale nelle regioni del centro-nord e all’estero. “Solo accuse a soggetti precisi per specifici reati”, ha chiarito ancora Boccassini, a voler marcare – sempre in modo indiretto – la differenza di metodo con altre Procure dove, spesso, i processi ai politici collusi con la mafia finiscono in nulla o quasi, trascinandosi dietro mille polemiche.

Anche a Milano e in Lombardia sono ormai numerosi i nomi dei politici finiti nelle inchieste – il magistrato reggino Nicola Gratteri ne ha contati 13 “connessi con la mafia” – ma, appunto, per la stragrande maggioranza dei casi senza conseguenze penali. Basti pensare al consigliere comunale del Pdl Armando Vagliati, legato da lunga consuetudine ai vertici del clan Valle-Lampada, o all’esponente dello stesso partito Marco Clemente, registrato da una microspia mentre conversava di estorsioni con un presunto appartenente al clan Flachi. Per non parlare delle connessioni politico-mafiose scoperte, proprio dall’indagine Infinito, nel sistema di potere dell’ex assessore regionale Massimo Ponzoni, poi finito in carcere per corruzione. E sono solo pochi esempi. Tutti personaggi i cui rapporti con la ‘ndrangheta trapiantata al Nord sono emersi con certezza da intercettazioni e filmati, ma, appunto, senza la pistola fumante di un comportamento illecito in favore dei boss. “Puoi anche essere certo che Ilda Boccassini è collusa”, ha esemplificato la coordinatrice della Dda milanese, “ma lo devi provare, e in maniera corretta. Certo che se ordino determinate intercettazioni qualcosa pesco di sicuro, come in un lago di trote, ma non è così che si deve fare”.

I tre magistrati, intervenuti nell’aula magna della Bocconi davanti a centinaia di studenti e professori, non hanno neppure citato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, al centro di periodiche polemiche dal processo Mannino alla pù recente sentenza Dell’Utri. Ma qui parlano i fatti: nelle più recenti inchieste coordinate da Boccassini il reato non è quasi mai stato contestato. Per l’antimafia milanese, o si è dentro l’organizzazione – e infatti fioccano i 416 bis – o si fanno altri reati. Ma la via di mezzo non c’è. Tranne in un caso eclatante: quello di Carlo Chiriaco, il direttore dell’Asl di Pavia attualmente imputato al processo Infinto. Proprio lui che, paradossalmente, si vantava improvvidamente al telefono di essere un capo della ‘ndrangheta.

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