Seguivo (e tuttora seguo) puntualmente le riflessioni di Franco Bolelli attraverso un boxino settimanale e spesso ho ritagliato gli articoli per conservarli. Poi, ho conosciuto Franco Bolelli di persona. Poi, ho letto il suo ultimo libro “Giocate!”. Ora, per confrontarci su libri e idee, con Franco ci scriviamo email, seppur non così massicciamente come ha fatto con Jovanotti tanto da farle diventare un ponderoso volume, “Viva tutto!”. (Questi della Add Edizioni amano le esortazioni).

Mi sono ritrovata molto in “Giocate!”. Sarà perchè anche io adoro il mio unico figlio, sarà perchè – per percorsi esistenziali molto diversi da quelli di Franco Bolelli – anche io sono arrivata a ritenere il gioco l’unica formula valida per affrontare la vita. Ogni qual volta mi fermo a riflettere su cosa io stia facendo, mi riscopro a pensare che in fondo, sì, sto giocando, perchè non serve prendersi così maledettamente sul serio su tutto, perchè one is the life, perchè secondo me l’unico scopo dell’esistenza è la riduzione del dolore di chiunque. Meditazione? Illuminazione? Zen? Gioco! Ovvero, maneggiare la vita come un bambino maneggia i mattoncini lego: con curiosità, con la voglia di scoprire come va a finire e che cosa si può fare con i mattoncini che abbiamo.

Il gioco come sistema mentale che non contempla il dogma dell’irreversibilità, per esempio. Il gioco come sistema cognitivo per il quale puoi sempre imparare nuovi giochi, e quindi nuovi sistemi mentali. Il gioco come sistema emotivo per il quale riesci a provare entusiasmo senza uno scopo funzionale, come fanno i bambini.

I bambini ed il loro sviluppo affettivo sono l’argomento principale del libro di Franco (ci sono anche bei pensieri sui rapporti di coppia), il quale si serve spesso di riferimenti alla sua esperienza di padre (ed ora di nonno) e di giocatore di pallacanestro.

Franco non è un pedagogista, né un filosofo barboso (lo definiscono filosofo pop), bensì un genitore che si è minuziosamente analizzato durante il percorso. Di sè dice di essere nato con suo figlio. È stato più madre che padre, perchè non ha mai vestito l’abito del genitore paternalista o ‘premiocratico’. É come canta Roberto Vecchioni:

“Per amarti senza amare prima me 

vorrei essere tua madre… 

[…]Per vedere anche quello che non c’è 

con la forza di una fede 

per entrare insieme 

nel poema del silenzio 

dove tu sei tutto quello che sento; 

[…] e abitare la tua stanza 

senza mai spostare niente, 

senza mai fare rumore: 

prepararti il pranzo 

quando torni e non mi guardi, 

ma riempire tutti i tuoi ricordi. 

di Marika Borrelli

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