Rigore e riforme strutturali sono certo indispensabili, ma danno risultati di lungo periodo. Nel breve, la politica per la crescita è il contrasto della recessione tramite stimolo della domanda, come sanno bene negli Stati Uniti. E nessuna politica anti-recessiva può essere fatta in un solo paese europeo, tanto che si inizia a parlare di un “growth compact”. Una boccata d’ossigeno per l’economia italiana può arrivare dal pagamento di una parte dei debiti dello Stato verso le imprese, con un intervento una tantum che non violerebbe gli impegni con l’Europa sui conti pubblici del 2012.

di Andrea BoitaniGiuseppe PisauroPippo Ranci, 3 maggio 2012, lavoce.info

Nel resto del mondo, l’Europa è sempre più avvertita come un problema, come una probabile fonte di contagio recessivo. Paul Krugman ha scritto recentemente che “piuttosto che ammettere di aver sbagliato, i leader europei sembrano determinati a guidare la loro economia giù dalla scogliera. E tutto il mondo ne pagherà il prezzo”. Forse, però, è ancora possibile evitare il precipizio del consenso di Angela Merkel e Mario Monti e le parole di Mario Draghi, sommati al possibile successo elettorale di François Hollande in Francia, possono davvero aprire una fase nuova.

Purché non ci si faccia prendere da un riflesso condizionato che, purtroppo, sembra scattare anche tra molti economisti. Quando si parla di crescita si aggiunge subito che promuoverla non implica allentare il rigore sulla finanza pubblica e che la crescita duratura si ottiene con le riforme “strutturali”. Cose vere entrambe, sia chiaro. Ma c’è rigore e rigore: quello del consolidamento fiscale rapido e simultaneo in tutta Europa, dei bilanci in pareggio nel 2013 è rigor mortis. E le riforme, che pure riteniamo indispensabili, hanno effetto nel periodo lungo: lo stesso governo italiano ha giustamente rivisto verso il basso le stime iniziali dell’impatto delle riforme sulla crescita e, forse, si tratta ancora di calcoli troppo ottimistici, soprattutto con riferimento ai primi due, tre anni.

In effetti, le riforme non solo sono più difficili da fare in fase di recessione (soprattutto se gli ammortizzatori sociali sono deboli e non universali), ma hanno anche un’efficacia minore. Come ha scritto Peter Bofinger (componente del consiglio degli esperti economici della cancelliera Merkel) insieme a Sony Kapoor sul Guardian “le riforme strutturali nei paesi in crisi devono continuare e la liberalizzazione dei servizi nel mercato unico deve essere accelerata. Queste politiche aiuteranno a stimolare la crescita futura ma funzionano al meglio in un’economia che cresce e non in una che si contrae”.

Insomma, le riforme sono necessarie per la crescita duratura, ma servono molto meno a riaccendere i motori oggi e funzionano poco a motore spento. Di qui la proposta avanzata da Bofinger e Kapoor di un “growth compact” che coordini le politiche di bilancio (spesa e tassazione) dei paesi euro in senso growth friendly. La politica per la crescita, nel breve periodo, è politica di contrasto della recessione tramite stimolo della domanda: è inutile far finta di non saperlo o usare eufemismi. Negli Stati Uniti, tanto gli economisti quanto i politici sono chiari in proposito, tanto che siano favorevoli quanto che siano contrari.
Nessuna politica anti-recessiva può essere fatta in un solo paese europeo (eccezion fatta per la Germania, forse) e soprattutto non può essere fatta unilateralmente dai paesi con disavanzi e debiti eccessivi. Perciò un vero growth compact passa necessariamente per una revisione, in una prospettiva di medio periodo, del suo fratello maggiore, il fiscal compact, laddove prevede tempi troppo rapidi per il pareggio del bilancio e per la riduzione del debito pubblico. Così rapidi da non essere neanche credibili, con la recessione in corso. E bisogna cominciare a pensare a mettere in piedi una politica fiscale federale europea, senza mettere la testa sotto la sabbia con il pretesto dell’immaturità dei tempi politici. Questo significa ammettere gli errori prima di finire giù dalla scogliera.

Saldare una parte dei debiti verso le imprese
Intanto qualcosina per far riprendere la circolazione nell’esangue economia italiana si potrebbe fare, senza violare gli impegni presi con l’Europa sui conti pubblici del 2012. 
La pubblica amministrazione italiana (centrale, regionale e locale) ha accumulato debiti verso le imprese per una cifra molto grande. Pare si tratti di 60-70 miliardi, almeno quattro punti percentuali del Pil. È un’anomalia grave dell’Italia: il ritardo medio di pagamento è molto più elevato rispetto a quello di altri stati e alla media del settore privato. È un difetto strutturale: lo Stato italiano è un cattivo cliente, le imprese migliori lo evitano se hanno alternative, tutte le imprese fornitrici cercano di inglobare nei prezzi il costo della futura attesa e dell’incertezza, con il risultato che lo Stato italiano paga prezzi più alti. Nella congiuntura attuale il ritardo e l’incertezza aggravano le condizioni già precarie di molte aziende. Molto opportunamente il governo ha avviato una procedura per accelerare i pagamenti e smaltire parte del debito. La procedura è complessa per vari motivi: ad esempio, un intervento dello Stato a sanare debiti contratti da un ente locale o da una azienda sanitaria che non hanno attuato le misure di efficienza necessarie, potrebbero costituire un incoraggiamento a proseguire in una condotta irresponsabile. Giusto quindi procedere alla ricognizione accurata dei debiti e accompagnare qualsiasi ripianamento con un giro di vite sul monitoraggio della spesa anche a livello locale.

L’ostacolo maggiore è comunque l’effetto che i pagamenti ai fornitori avrebbero sui conti pubblici. È probabile che buona parte dei debiti siano fuori bilancio: arretrati di pagamenti per impegni che non sono mai stati registrati nel bilancio di competenza. In tal caso, la loro emersione avrebbe l’effetto di un aumento del disavanzo e del debito, con i rischi che questo comporta in un contesto di tensione dei mercati finanziari. Qualche spazio ci può essere, tuttavia, per un intervento una tantum. Secondo le previsioni del Documento di economia e finanza, nel 2012 l’indebitamento netto dovrebbe attestarsi all’1,7 per cento del Pil, un livello ampiamente al di sotto della soglia del 3 per cento e che migliorerebbe di 2,2 punti di Pil il risultato del 2011.

Una manovra espansiva limitata al 2012 dell’ordine di grandezza di 10-15 miliardi, che corrisponderebbe alla liquidazione di una quota probabilmente vicina a un quarto del debito esistente, sarebbe coerente con il rispetto dei vincoli europei. Non intaccherebbe l’impegno al pareggio strutturale del bilancio nel 2013 e darebbe un contributo non trascurabile al contrasto della recessione nel 2012. In attesa di un vero growth compact europeo, sarebbe meglio che niente.

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