Per anni, prima della sua cattura, la polizia italiana non sospettava che Paolo Di Lauro fosse uno dei boss criminali più potenti di Napoli, a capo di un impero di traffici di droga e merci contraffatte. Era anche il garante di una pace che raramente si era vista in quella terra. Ora le autorità potrebbero rimpiangere i giorni in cui era Di Lauro a comandare.

Testata: Vanity Fair
Data di pubblicazione: maggio 2012
Traduzione di Simone Serra, Daniela Castrataro, Gaia Faleschini, Lillo Montalto Monella, Claudia Spiti e Mara Colzani per italiadallestero.info
Articolo originale di William Langewiesche

Solitamente un omicidio ha la peculiarità di accadere di sorpresa. Persino a Napoli, dove i clan criminali conosciuti collettivamente come camorra lottano violentemente per il controllo delle strade, nessuna vittima si alza la mattina aspettandosi di morire quel giorno. Il camorrista si fa la barba con cura, indossa i vestiti preferiti, l’orologio costoso e magari abbraccia la moglie prima di uscire per incontrare gli amici. Se sospetta che qualcosa possa succedere, dà un bacio di addio alla moglie. Per generazioni, il quartiere è stato la casa di gente che lui conosce. Si occupa di estorsioni, protezioni, narcotici, merci contraffatte. Si attiene a regole alternative. Per questo è rispettato. E raramente porta una pistola. Fino ad ora credeva che solo gli altri venissero assassinati. Poi un giorno arriva qualcuno che lo uccide.

Che fine strana. Ci potrebbero essere attimi di consapevolezza alla fine, ma ormai quell’uomo era spacciato.

Recentemente, in una periferia di Napoli chiamata Secondigliano, si è saputo che la vittima fosse stata a conoscenza del proprio destino per circa 7 secondi prima di morire. Secondigliano è un antico villaggio di agricoltori successivamente inghiottito dalla città. Si è evoluto nel maggiore mercato a cielo aperto di droga d’Europa e nella fortezza proletaria della camorra. La vittima era un membro di medio rango di un clan coinvolto nella lotta armata e fino ad allora sconosciuto alla polizia. Era un uomo sulla trentina con un’incipiente calvizie. Ben vestito e curato. Come d’abitudine, si era recato in un piccolo locale di gioco d’azzardo che dava sulla strada. Le telecamere di sorveglianza hanno registrato il fatto. Era pieno giorno. Per precauzione aveva piazzato tre guardie del corpo al di fuori del locale, una delle quali era un tipo corpulento, ma nessuna di loro era armata. Il locale era stretto ed aveva posto solo per sei macchinette lungo una parete. La vittima era da sola nella stanza. Si sedette su uno sgabello e incominciò a giocare.

Una telecamera di sicurezza sulla strada riprese l’arrivo dei killer. Erano in due. Lo scooter sul quale stavano arrivando frenò bruscamente, entrambi indossavano un casco integrale con il visore abbassato. Dalla sicurezza con cui si muovevano, sembravano certi che la loro vittima fosse all’interno del locale. Non si sa chi li avesse avvertiti. Del commesso che gestiva il locale non v’era traccia. Appena lo scooter si fermò, l’uomo seduto sul sedile di dietro saltò giù e con una pistola 9mm in pugno si diresse deciso verso l’entrata. Le guardie scapparono immediatamente. Due di loro, incluso quello corpulento,  capitombolarono dentro il locale per dare l’allarme. La telecamera all’interno mostrò le due guardie fare irruzione seguite da vicino dall’uomo con la pistola, una figura sottile che ricordava un insetto – per via del casco. La vittima reagì immediatamente. Saltò giù dallo sgabello, si precipitò verso la porta sul retro e, seppur strattonandola, la trovò chiusa. Il suo cuore deve aver battuto all’impazzata. Così si girò e cercò di fuggire dall’ingresso principale, trovandosi di punto in bianco a portata del killer, che si era fermato a metà del locale. Il killer sparò due colpi da dietro mentre la vittima passava. Cadde a faccia in giù. L’uomo armato fece due passi avanti, si abbassò e finì il camorrista con un colpo di postola alla testa. Ma il killer sembrava aver perso la freddezza. Nella fretta di uscire dal locale, inciampò in uno sgabello e cadde a terra, tendendo le braccia in avanti e barcollando mentre si rialzava. La caduta lo aveva riportato con la faccia verso l’interno del locale e proprio in quel momento la guardia corpulenta, che a sua volta si affrettava a scappare, fece l’errore di voltarsi nella sua direzione. Il killer sparò due volte al petto della guardia che ricadde sulla schiena e rimase a terra muovendo ripetitivamente le mani sul petto finché non spirò definitivamente. A quel punto il killer era già sul motorino dietro al suo complice e insieme fuggirono via. La targa dello scooter era illeggibile.

Poco dopo un investigatore mi disse che la polizia non aveva identificato gli assassini, ma mi assicurò che la camorra già sapeva chi fossero. Pensa in prospettiva, mi disse: in un modo o nell’altro ci sarà giustizia. E lo stato  prima o poi riuscirà a stabilire la verità, anche per il solo fatto che a Napoli, mi disse, l’omocidio è una lingua che la polizia capisce. Intendeva dire che un  uomo morto può parlare più chiaramente di uno vivo.

Un’intesa

Il silenzio è napoletano di nascita. La città ha una tale cultura del silenzio che qualche anno fa, quando una ragazza innocente venne uccisa nel fuoco incrociato di una sparatoria fra clan, molti dei testimoni che all’inizio aveva identificato i camorristi ritrattarono la loro versione dei fatti al processo che ne seguì. Frustrato, il Pubblico Ministero perse la calma e incominciò ad accusare i testimoni, come se nella stanza del processo si trovasse faccia a faccia con la camorra stessa. Ma quelli che aveva davanti erano solo dei comuni napoletani. Non si può accusare direttamente la camorra. Se ci provi, troverai davanti sguardi fissi nel vuoto.

La camorra non è un’organizzazione come la mafia, che può essere separata dalla società, disciplinata nel tribunale, o persino definita. È un gruppo amorfo di Napoli e delle periferie con più di 100 clan autonomi e forse 10.000 affiliati, oltre a un gruppo ancora più esteso di dipendenti, clienti ed amici. È un’intesa, un modo di farsi giustizia, una maniera di creare ricchezza e diffonderla in giro. È stata parte di Napoli per secoli, molto più a lungo dell’avvento di quel fragile concetto chiamato Italia. In periodi recenti è cresciuta fino a diventare un mondo parallelo e – nella mente di molte persone – un’alternativa al governo italiano, qualunque cosa significhi questo termine.

I napoletani la chiamano “il sistema” con rassegnazione ed orgoglio. La camorra offre lavoro, presta denaro, protegge dal governo e sopprime anche il crimine sulle strade. Il problema è che a volte la camorra prova a scindersi in sottogruppi, e quando succede i napoletani devono nascondersi. Secondigliano lo sa. Ha il più alto tasso di delitti dell’europa occidentale. E probabilmente anche il più alto tasso di sparatorie.

Ho un amica che viene da là e fa l’architetto. Suo padre è un autista di autobus in pensione. Guida un’auto familiare che usa per trasportare un’altra sua figlia che necessita di una carrozzella. Un giorno, non tanto tempo fa,  due uomini gli rubarono la macchina, poi chiamarono la famiglia e chiesero 2.000 euro in contanti per la restituzione. I ladri erano due bulli della camorra, due affiliati del rango più basso. La mia amica era infuriata, ma suo padre pagò quello che poté per il riscatto. Si fece trovare in una strada, con i soldi in una busta, mentre sua figlia in carrozzella girava intorno facendo delle foto con il suo telefonino. Nessuna delle foto venne bene. La mia amica accusò il padre di complicità con il sistema. Il padre rispose che non poteva permettersi di compare un’altra macchina. Sì, un tempo nessun bullo di Secondigliano avrebbe osato rubare una macchina di una persona del posto con una figlia disabile, poiché la camorra stessa sarebbe intervenuta. Ma lui non si pianse addosso. È  un realista. Nel 2004 scoppiò una lotta armata e da allora è continuata sporadicamente, indebolendo i clan fino al punto di perdere il controllo sui loro affiliati. Quelli di rango più basso sono degli idioti capaci solo di sparare. E allora che fai? Impari a tenere la testa bassa. In tutta la sua vita, solo una volta ha dovuto ricomprarsi una macchina. Sicuramente il governo italiano gli è costato di più, in tasse. È cresciuto a Secondigliano. Conosce bene Napoli.

Per trent’anni ha portato in giro sull’autobus i residenti del quartiere. Guidare un autobus significa lavorare sulla strada. Sul mezzo di trasporto saliva e scendeva ogni tipo di persona. Erano sotto la sua protezione quando guidava. Non si isolò da Napoli come avrebbe fatto un cittadino del nord. Aprì il suo cuore per fare il suo lavoro. Napoli è sporca. Napoli è selvaggia. Napoli è la città più grande di tutte. All’inferno Roma e Milano e anche le loro squadre di calcio. Quando gioca il Napoli, il mondo si ferma. Quando gioca in casa, i tifosi della squadra avversaria non osano venire a vedere la partita. Forza Napoli! Gli avversari sono dei bastardi figli di puttana. Allo stadio si ammucchiano dietro le barriere di protezione per coprirsi dai detriti e dai fuochi d’artificio che gli tirano addosso. È una visione stupenda. Napoli va di fretta. Napoli è povera.

Napoli ha una linea di autobus chiamata R5 che il padre della mia amica ogni tanto percorreva. Su quella linea viaggiano drogati e borseggiatori insieme a napoletani comuni: va dalla stazione fino al cuore profondo del mondo parallelo della camorra, sfiorando i vicoli del centro dove la polizia non entra, arrancando in salita per l’aeroporto e finendo in una sorta di bassofondo chiamato Scampia, un quartiere di palazzine disperse dove domina la camorra e dove qualcuno ha realizzato un enorme graffito su un palazzo. Mala via masta ne, si legge, che pressapoco significa “il crimine comanda”.

Le piazze

Scampia è il ritratto di quella povertà che si ottiene quando degli urbanisti corbusiani provano ad imporre le loro utopie sulla vita della gente. I marciapiedi sono larghi, ma vuoti. I parchi sono recintati per sicurezza. Quasi non ci sono negozi o bar. Molti condomini stanno prematuramente cadendo a pezzi e alcuni, ancora disabitati, sono stati distrutti dalle fiamme. Su un manifesto cattolico si legge: se credete in Scampia, troverete un mare di amore. Nelle aree comuni di un edificio iconico, un tubo rotto ha continuato a disperdere acqua comunale nelle fognature per 5 anni consecutivi. Nelle vicinanze ci sono parecchi blocchi di cupi appartamenti che racchiudono cortili difendibili e hanno rampe di scale fortificate che possono essere controllate dall’interno. Questi sono i bazar della droga, noti come “piazze”, sui quali i napoletani hanno versato così tanto sangue.

Sono tra i più lucrativi punti di vendita di eroina e cocaina di bassa qualità al mondo, funzionano apertamente, ma restano largamente oltre la portata dello Stato. I dettagli logistici variano, a seconda dell’area e della base di clienti, ma le operazioni più estese si svolgono notte e giorno e impiegano dozzine di pali a coprire gli avvicinamenti: alcuni in strada a cavallo di motorini, altri controllano le vie di accesso e i parcheggi dalle finestre dei piani superiori, altri in gruppo stanno ai punti di accesso per i cortili e gli edifici. Di nuovo, ci sono variazioni, ma l’ideale à isolare il perimetro esterno del complesso rinforzando le sbarre preesistenti alle finestre e le porte di acciaio con filo spinato e pesanti catenacci, per poi ricavare un piccolo portale d’accesso nella parete del piano terra di una rampa di scale – o sul cortile o sul retro del complesso –  attraverso il quale possono essere scambiati con sicurezza contanti e narcotici.

Queste accortezze non possono fermare la polizia dall’entrare, ma praticamente garantiscono che nessun venditore venga trovato in possesso di armi o droga, e questo a sua volta rende inutili le retate. Per quanto riguarda i residenti dei complessi, sono prigionieri fino al punto che devono evitare le trombe delle scale in attività e devono uscire e rientrare attraverso i punti di controllo della camorra – che potrebbero essere occasionalmente  chiusi. In ogni caso, loro stessi sono spesso coinvolti come pali, venditori di aghi, o come destinatari dell’aiuto della camorra. Fondamentalmente, la camorra è parte della loro vita.

Un pomeriggio, camminando con un detective della polizia – armato, coraggioso, con la barba incolta, jeans e maglietta – abbiamo superato un gruppo di soldati della camorra, entrando in un cortile e in una porta d’acciao aperta su una rampa di scale. C’erano un paio di sedie vicino a una breccia ricavata in una parete. La porta era equipaggiata con un grande catenaccio che il detective mi ha mostrato, scorrendolo per chiudere la porta. Subito dopo una donna è comparsa dal piano superiore, con una ragazzina. Senza dire una parola, ci hanno sorpassato e si sono dirette alla porta, che la madre ha sbloccato per uscire. La bambina ha detto: “Ma, mamma, non dobbiamo aspettare che gli uomini ci danno il permesso?”. La donna ha risposto: “No, questi sono della polizia”. Il suo tono era paziente, come se stesse spiegando i fatti più elementari a sua figlia. “Così sono fatti i poliziotti”, sembrava intendere. E anche, “nel nostro mondo, angelo mio, non contano molto”.

Nel retro del palazzo, una coda di clienti fuggì su per una rampa di scale esterna e lungo un passaggio al secondo piano attraverso il buco in una porta da dove stavano comprando l’eroina. Tutti erano italiani, alcuni furtivi, la maggior parte no. Anche solo a causa del sovraffollamento delle prigioni, il possesso personale di narcotici in Italia non è criminalizzato in modo significativo. L’eroina costava 8 euro a dose, poco più di un pacchetto di sigarette, e un quarto del prezzo di Milano. Alcuni clienti erano venuti da Firenze per l’affare. Uomini, donne, giovani, vecchi. Alcuni erano arrivati con il bus R5. Alcuni non vedevano l’ora di farsi prima di andare a casa. Dozzine di drogati bazzicavano per un campetto stracolmo di spazzatura e aghi, vicino ad uno spiazzo pavimentato macchiato da ciò che sembrava sangue rappreso. Sedevano su muretti di cemento o nello sporco, con le braccia o i piedi esposti, preparando le loro vene con cura amorevole, prima di iniettarsi la loro beatitudine chimica. Dopodiché sedevano oscillando, o sostavano al freddo vicino un falò, o vagavano senza meta tra fumo e rifiuti. Abbiamo camminato tra di loro.

Erano in gran parte indifferenti alla nostra presenza, ma un uomo ci ha avvicinato. Il detective gli ha chiesto: “Perché vivi in questo modo?”. L’uomo ha risposto: “Alla droga piacciono tutti, e a tutti piace la droga”. Il detective ha replicato: “A me non piace la droga, a me piacciono le donne”. L’uomo ha risposto: “Si, ma la differenza è che la droga non ti tradirà”. Si, ma la droga lo stava consumando da dentro. E tutto intorno a lui la camorra continuava a litigare e combattere. E questo è certamente più pericoloso di qualsiasi amore.

Lezioni di vita

Tradimento? La camorra uccide soprattutto quando è debole. Gli omicidi a Scampia e Secondigliano sono continuati per così tanto tempo che alcuni Pubblici Ministeri quasi si pentono dei precedenti trionfi. Nella memoria c’è un’era dorata in cui la camorra era forte. A quei tempi, il boss era un recluso di nome Paolo di Lauro, una presenza vista di rado, ora effettivamente in prigione a vita; è uno dei più grandi camorristi di tutti i tempi.

Poco si sa dei suoi primi anni. Si sa che nacque a Secondigliano nel 1953, rimase orfano e fu adottato da una famiglia modesta che aveva una casa vicino al centro del quartiere. La madre era casalinga, il padre un semplice operaio. Erano veri napoletani che parlavano un dialetto quasi incomprensibile nel resto d’Italia. Di Lauro frequentò pochi anni di scuola elementare prima di abbandonare gli studi e cominciare a lavorare come assistente di un negoziante locale. Prima di compiere 20 anni, si trasferì nelle zone industriali dell’Italia del nord, dove lavorò porta a porta vendendo biancheria intima e lenzuola agli operai emigrati dal sud. Nel dialetto locale, tali commercianti sono noti come magliari, una parola che può anche significare imbroglioni. Non c’è alcuna prova che Di Lauro abbia imbrogliato nessuno al tempo, ma la sua storia seguente indica che potrebbe averlo fatto se ne avesse avuto l’opportunità. Era quieto e insolitamente ambizioso. Nel nord si era fatto un po’ di soldi e aveva sviluppato un gusto per i giochi di carte e le scommesse. Sembra che avesse anche un’inclinazione per la matematica. Tornato a Secondigliano, sposa una ragazza del posto che nel 1973 gli diede il primo di 11 figli, tutti maschi. Sua moglie era molto cattolica, come lui. Si amavano molto. Non era un combattente. Fu la sua freddezza al gioco d’azzardo che lo portò all’attenzione del clan che controllava Secondigliano a quei tempi.

Il capo del clan era l’esuberante camorrista Aniello La Monica, che aveva un negozio di vestiti chiamato “Python”, dalla sua arma preferita, un revolver 357 Magnum. La Monica era un omicida aggressivo, responsabile della morte di molti uomini, incluso – si dice – uno per decapitazione. Ma era stranamente diffidente nei confronti dello spaccio di droga, preferendo le occupazioni tradizionali: trattare sigarette sul mercato nero, interferire nelle costruzioni pubbliche e proteggere i negozianti del vicinato dal crimine. Nel 1975 assunse Di Lauro per occuparsi della contabilità del clan. La posizione fornì a Di Lauro una visuale privilegiata sugli affari, convincendolo, dopo molti anni e nonostante la continua riluttanza di La Monica, che profitti molto più grandi potevano essere fatti nel commercio locale di eroina e cocaina, ancora inesplorato.

Questo diventò sempre più chiaro dopo il grande terremoto napoletano del 1980, che portò migliaia di persone dai tuguri  in rovina del centro-città e riempì le case popolari di Scampia con poveri e sfrattati. Negli anni che seguirono, miliardi di dollari di fondi per la ricostruzione portarono contanti ad ogni livello della società napoletana. Di Lauro rimase nell’ombra. Parlava poco. Ascoltava e osservava. Credeva che le persone razionali potessero risolvere le loro dispute professionali attraverso compromessi e nogoziazioni, e che potessero uccidere solo come ultima spiaggia. Ma aveva più autodisciplina che gentilezza. La Monica, che pare fosse un buon giudice di uomini, cominciò a temere che Di Lauro fosse il più spietato uomo al mondo. Da parte sua, Di Lauro concluse che La Monica fosse diventato un impedimento ai suoi affari: nel 1982 provò a rimuoverlo dal potere informando i membri chiave del clan, come contabile, che La Monica aveva preso più della sua giusta quota dei profitti. Quando La Monica venne a sapere del tradimento di Di Lauro, assunse due killer di una città vicina per uccidere Di Lauro. Arrivarono con uno scooter, trovarono Di Lauro a un mercato in strada, lo mancarono e lo inseguirno finché non riuscì a fuggire.

Dopo questo episodio, non c’era più spazio per compromessi e le persone del clan dovevano porsi in prospettiva di dover scegliere tra i due uomini. Qualsiasi eventuale incertezza non durò a lungo. Di Lauro pagò un affiliato per attrarre La Monica fuori da casa sua dicendogli che gli avrebbe mostrato dei diamanti rubati. La Monica, nonostante avesse riconosciuto il rischio, cadde nella trappola perché non sembrasse che si fosse rintanato in casa. Quando fu in strada, l’affiliato era scomparso. Prima di potersi rifugiare in casa, Di Lauro ed altri tre uomini sbucarono da dietro un angolo su una Fiat a gran velocità e si schiantarono contro di lui. L’impatto non lo fece cadere. Non sappiamo che danni subì l’auto. Di Lauro e i suoi complici scesero dalla macchina e uccisero La Monica a colpi di pistola. La Monica aveva appena 40 anni. Di Lauro non ne aveva 30. Si dice che fosse un tiratore scarso. Dietro consiglio dei suoi amici, giurò che non avrebbe mai più maneggiato una pistola. Sembra che da allora non lo fece più, o almeno mai di persona.

Il giorno del funerale di La Monica tutta Secondigliano era in lutto e molti negozianti tennero le serrande abbassate in segno di rispetto. Di Lauro fu solennemente presente alla sepoltura e subito dopo sparì nel nulla. Era così attento a non farsi notare che la polizia non seppe nulla di lui per anni. Non sapevano che aveva ucciso La Monica, poiché nessuno aveva parlato. Poco dopo l’omicidio, i boss di un importante clan del centro della città indirono una riunione, perché loro stessi non riuscivano a decifrare l’accaduto. Di Lauro partecipò alla riunione con alcuni suoi uomini e chiarì che volevano fare affari in pace e amicizia. Ed era la verità, almeno per Di Lauro. Fortuna volle che la polizia scelse di fare un’incursione durante la riunione. Arrestarono Di Lauro, ma poi lo rilasciarono senza interrogarlo, ritenendo che fosse un teppistello di poca importanza. Di Lauro giurò che non avrebbe mai più partecipato a quelle riunioni. Era molto bravo a trarre lezioni di vita.

E gli piaceva anche predicare. Per esempio diceva: “È meglio dividersi i profitti che litigarseli”. E poi: “Devi essere disposto a fare la guerra, ma se la violenza è la tua unica arma, finirai per perdere e morire”, “Uccidere non va bene perché attira l’attenzione”, “Se la polizia perquisisce la tua casa, resta calmo, non fare lo spavaldo e non dire più del necessario”. “Vivi con modestia, vestiti con modestia, guida con modestia, non portare la pistola. Non fare uso di droghe”. “Se vuoi giocare a soldi e andare a puttane fallo pure, benché sia lontano da qui, come a Monaco o a Marbella. Vai con le donne francesi o con le spagnole”. “Qui a Secondigliano non ti scopare le mogli o le figlie di altri uomini tanto per fare. Qui a Secondigliano l’unico rumore che dovremmo sentire è quello del fruscio delle banconote”.

Di Lauro accumulò progressivamente potere mentre le persone si rivolgevano a lui per ricevere aiuto o per prendere decisioni. Era attento a mantenere rapporti di rispetto con i clan di tutta la regione e ad evitare coinvolgimenti potenzialmente pericolosi in alleanze formali. Erano particolarmente delicate le relazioni con una famiglia locale chiamata Licciardi, un potente clan molto affermato nella zona di Secondigliano e Scampia. Più di una volta riuscì ad evitare di entrare in guerra con loro, persino nel momento in cui i suoi affari si stavano espandendo. Tali affari si basavano principalmente sul narcotraffico, con i suoi margini di profitto cinque volte superiori ai costi, senza escludere però altre opportunità nei settori tradizionali: contrabbando di sigarette, locali di giochi d’azzardo nella zona, estorsioni da quattro soldi e il nuovo mercato emergente delle marche contraffatte.

Miracoli

Nel 1992, dieci anni dopo l’uccisione di La Monica, Di Lauro stava diventando uno degli uomini più ricchi d’Italia, con una fortuna incalcolabile pari a centinaia di milioni di dollari. Recentemente ho parlato con Vittorio Giaquinto, ex avvocato di Di Lauro e uno dei pochi che lo conosceva bene, un uomo robusto, vestito in maniera impeccabile, seduto nello splendore di un ufficio in stile barocco. Disse che Di Lauro, più che dall’avidità, era motivato dalla logica di funzionamento e dal fatto che, essendo orfano, era fermamente determinato a fornire sicurezza economica e a lungo termine alla sua famiglia.

Di Lauro, da giocatore d’azzardo quale era, sapeva che stava perdendo in partenza e che doveva rendere leciti i suoi affari se voleva raggiungere i suoi obiettivi. Fondò così una holding con cui si inserì nei settori del tessile, dell’arredamento, della carne e dei prodotti lattiero-caseari, dell’acqua minerale, dei mercati all’ingrosso cash & carry, della distribuzione di cibi pronti, della creazione di centri commerciali, del mercato immobiliare residenziale, degli hotel, di ristoranti e negozi di vario genere a Secondigliano e di un grande negozio di abbigliamento a Parigi nel XII distretto. Si mormora che accumulò una quantità di pietre preziose che sarebbe sufficiente a ricoprire l’autostrada fino a Roma. Eppure, nonostante si rendesse conto degli enormi rischi che correva, non voleva ritirarsi dallo spaccio di stupefacenti. Lo continuò, ben sapendo che avrebbe potuto segnare la sua rovina e, peggio ancora, distruggere la vita di sua moglie e dei suoi figli. Era come un giocatore d’azzardo che non riesce a smettere.

Per Secondigliano, comunque, quelli erano gli anni d’oro. Di Lauro cercava di ripararsi dai tradimenti. La sua più grande difesa era la struttura imprenditoriale che aveva costruito, sviluppata come una piramide di imprenditori indipendenti che agivano come affiliati sotto la sua guida e da lui trattati come soci d’affari autonomi. Circa 20 persone erano a quel livello, ognuno con diritti esclusivi su una delle principali piazze di spaccio. Ogni settimana dovevano comprare da Di Lauro una quantità minima di narcotici e pagavano un affitto considerevole, ma per il resto erano liberi di guadagnare quanto più potevano dalle loro piazze. Ciò includeva rivolgersi a venditori esterni per rifornimenti aggiuntivi, qualora offrissero prezzi migliori rispetto a quelli di Di Lauro. Lui persino li finanziava e con bassi tassi d’interesse, se glielo richiedevano. In cambio Di Lauro pretendeva che si rispettasse un codice di condotta ben preciso: all’interno del clan tutti dovevano essere trattati equamente, anche l’affiliato di rango più basso; non dovevano litigare fra loro per questioni futili, e qualora la lite fosse motivata dovevano riconoscere l’arbitrio di Di Lauro. Essenzialmente dovevano riconoscere la sua autorità in ogni circostanza; inoltre non erano autorizzati ad agire contro un qualsiasi altro gruppo della città. Infine non dovevano mai, in nessuna circostanza, pronunciare il nome di Di Lauro.

Di Lauro era sensibile ad ogni minimo accenno di problema. Simone Di Meo, un reporter che ha scritto i migliori resoconti di quel periodo, mi ha detto che una volta, nel centro di Secondigliano, Di Lauro per caso si accorse di un gruppo numeroso di scooter parcheggiati fuori da un bar. Mandò un uomo dentro per scoprire cosa stesse accadendo. Trattenevano una bella ragazza finché lei non avesse scelto di concedersi a uno di loro. Di Lauro mandò a dire che la festa era finita e che non voleva che certe sciocchezze accadessero nel suo quartiere. Non gli piacevano i divertimenti e i flirt. Si dice che lo divertissero invece gli scherzi pratici, cosa però testimoniata da un unico aneddoto che potrebbe non essere vero. Si racconta che un giorno in una macelleria si vestì da macellaio e che per ogni 5 euro spesi dai clienti lui ne desse 50 di resto. Una versione della storia dice che i clienti erano in imbarazzo perché avevano capito che stava giocando come un re che fa lo sciocco a suo piacimento. Un’altra versione dice che i clienti erano così emozionati dal vederlo in carne e ossa che facevano la fila per andare a baciargli la mano. Ma non si sa se Di Lauro fece davvero questo spettacolo e se, in ogni caso, i clienti lo avessero riconosciuto.

Nella comunità era conosciuto con il nome leggendario di “L’Uomo”. Nella suo organizzazione era conosciuto come “Pasquale“. Lui era il fantasma, il potere invisibile che aveva trasformato i quartieri di Napoli nord nel più grande emporio di stupefacenti d’Europa, ma che, inoltre, aveva migliaia di dipendenti e che era riuscito con successo a eliminare il crimine dalle strade di Secondigliano e Scampia. Entro la metà degli anni ’90 stupri, rapine, aggressioni e furti erano del tutto scomparsi. Si poteva camminare in qualunque strada a qualunque ora del giorno. Si poteva parcheggiare la propria auto o scooter ovunque senza preoccupazioni, se non forse per la radio (perché, in fin dei conti, siamo pur sempre in Italia). Quando l’importante testata Il Mattino pubblicò un articolo sulle scommesse illecite nei quartieri, Di Lauro entro 48 ore ordinò il divieto permanente di fare scommesse. Quando decise che il business tradizionale dell’estorsione di denaro per la protezione dei negozianti locali stava portando più problemi che benefici, ordinò non solo che venisse sospeso, ma anche che i suoi uomini comprassero la merce a prezzo intero e che ringraziassero persino i negozianti per il loro servizio. E loro stranamente obbedirono. Per questo e per tutti gli altri favori che prestò, Di Lauro era molto amato e lo è ancora. Dicono che la differenza fra Di Lauro e un santo era che Di Lauro faceva i miracoli più velocemente.

Al culmine del suo potere importava ingenti carichi di cocaina dalla Colombia (attraverso la Spagna), di eroina dall’Afghanistan (attraverso Turchia, Europa dell’Est e Balcani) e di hashish dal Marocco (anche attraverso la Spagna). Queste sostanze non passavano clandestinamente per il porto (dove erano appostati avidi funzionari doganali), ma erano consegnate via terra in auto o in camion fino a Napoli. Una volta arrivata a Secondigliano, la droga veniva tagliata e distribuita sulle piazze, ormai in grande espansione, nonché sulla più estesa rete all’ingrosso di Italia, Germania e Francia.

Nel mentre, Di Lauro produceva prodotti di marca contraffatti, che poi vendeva all’ingrosso nell’Europa occidentale, in Brasile e negli Stati Uniti. Marche come Louis Vitton, Dolce & Gabbana, Versace, Gucci, Prada. Alcune merci contraffatte provenivano da fabbriche italiane che producevano anche gli originali, ed erano identiche persino nelle cuciture; altre erano solamente delle grezze imitazioni. Era un giro d’affari redditizio, e non del tipo che può costare la vita. Si dimostrò un affare ancora migliore il commercio di macchine fotografiche e di apparecchi elettronici contraffatti, scadenti imitazioni cinesi contrabbandate in Italia da Di Lauro e vendute al grande pubblico inconsapevole.

Un ottimo affare, o quasi. Di Lauro non rapiva né derubava. Vendeva alle persone quello che loro chiedevano. Ma lui stesso sembrava insoddisfatto. Diventava sempre più sfuggente e entro la metà degli anni ’90 si era ritirato quasi completamente in casa, dove viveva dietro persiane d’acciaio chiuse e cancelli sprangati, evitando contatti con chiunque fosse estraneo alla sua famiglia e ai suoi pochi collaboratori fidati. La sua pelle divenne bianca perché non si esponeva mai al sole. Sua moglie rimaneva in casa con lui e di tanto in tanto dava alla luce un figlio. I figli infine crebbero e andarono a scuola. La famiglia aveva un mastino napoletano gigantesco chiamato Primo Carrera, dal nome del pugile italiano di peso massimo. Il cane dormiva in camera da letto. La casa era la stessa casa modesta in cui Di Lauro era cresciuto, ma allargata, fortificata e sorvegliata. Nel seminterrato c’era un bancone bar rifornito di vini e liquori francesi, una stanza con i letti per i ragazzi e un grande salone poco arredato dove Di Lauro prendeva le sue decisioni. Nel salone c’erano immagini religiose alle pareti. Di Lauro a stento osava andare in chiesa. A stento usava il telefono. Aveva un’uscita posteriore per fuggire.

Osservava attentamente le persone quando parlava con loro e si esprimeva con un linguaggio così stentato che per un estraneo sarebbe stato difficile capirlo. Di fatto però gli estranei non potevano sentirlo. Ma Di Lauro aveva chiaramente paura che se avesse parlato si sarebbe potuto rovinare. Non era più taciturno di natura. La prudenza lo aveva ridotto al mutismo. E se soltanto il parlare avrebbe potuto smascherarlo, figurarsi l’omicidio, un linguaggio molto più facilmente decifrabile dallo stato. La polizia non era arrivata al significato della morte di La Monica, ma da quel momento in poi Di Lauro ebbe questa costante preoccupazione. Era rimasto al sicuro da occhi indiscreti anche perché aveva soffocato la propensione della camorra alla violenza anarchica. Aveva sì perdonato degli omicidi, che però erano azioni discrete all’interno del clan e non pubbliche vendette. Per la sicurezza del gruppo, purtroppo, alcuni uomini dovevano sparire. Gli omicidi erano così “puliti” che nel 1992, 10 anni dopo, la polizia ancora non era a conoscenza di Di Lauro e del suo clan.

“L’uomo coniglio”

Ma poi, in quello stesso anno, la situazione gli sfuggì di mano per un breve momento. Un ex affiliato di nome Antonio Ruocco, boss di un piccolo clan in un paese vicino, uscì di prigione e scoprì che la sua piazza era stata assegnata ad un altro uomo. Ruocco dichiarò guerra e, dopo un paio di uccisioni da entrambe le parti, riunì alcuni criminali, si fermò in un bar di Scampia e aprì il fuoco delle mitragliatrici, uccidendo cinque dei più stretti collaboratori di Di Lauro e ferendo altri nove uomini. Se l’azione fu crudele, la reazione fu atroce: alcuni membri del clan Di Lauro sfuggirono totalmente al controllo e in completa autogestione si misero a dare la caccia a Ruocco con l’intenzione di eliminare lui e la sua famiglia. Ruocco fuggì a Milano e sopravvisse, ma gli uomini di Di Lauro uccisero la sua anziana madre, spararono al fratello (che sopravvisse), spararono alla moglie di suo fratello (che morì) e cercarono di uccidere una delle sorelle dando fuoco al bagno in cui la avevano rinchiusa (ma lei scappò dalla finestra e lasciò il paese).

Di Lauro andò su tutte le furie. Colpire familiari innocenti, e in particolare una donna anziana, costituiva una grave violazione alle regole della camorra. E peggio ancora, l’evento drammatico aveva richiamato l’attenzione sulla zona nord di Napoli. Di Lauro riacquisì il controllo facendo uccidere come rappresaglia le donne dei killer e ordinando il cessate il fuoco, ma ormai delle domande pericolose erano state poste e non sarebbero state dimenticate.

Tre mesi più tardi, nell’agosto del 1992, la polizia scovò Rocco a Milano, dove si era nascosto per paura della collera di Di Lauro. Quando la polizia lo sorprese, si gettò da una finestra del terzo piano, si ferì cadendo e finì in prigione, dove, dopo un periodo di silenzio, iniziò a rivelare alla polizia i segreti della camorra, incluso la storia dell’uccisione di La Monica. Questa fu la prima traccia per lo stato, che però non seguì dovutamente. Dopo tutto quel trambusto, tutto ciò che si ricavò dalla cooperazione di Ruocco fu la sua condanna per complotto.

Nel 1994 il putiferio si era placato e, stando a Simone Di Meo, fu quando la stampa italiana individuò Di Lauro per la prima volta. Se questo è vero, però, i poliziotti non leggevano i giornali, perché gli inquirenti che più tardi condussero l’inchiesta durata sette anni che portò alla rovina di Di Lauro, mi hanno confessato che nel 1995 non avevano mai sentito il suo nome.

All’insaputa della polizia, Di Lauro si trovò di nuovo nei guai nel 1997, quando alcuni dei suoi uomini uccisero un nipote di Licciardi in ciò che era iniziato come una lite per una donna in un bar, e i Licciardi risposero affiggendo alla porta di una chiesa una lista di 17 affiliati di Di Lauro che loro condannavano a morte. Si dice che Di Lauro stesso ordinò di uccidere alcuni dei nomi sulla lista per mostrare la sua buona fede, ma sembra più probabile che semplicemente non si oppose al loro destino. La lista rimase sulla porta finché il prete non la staccò. La maggior parte dei 17 sopravvisse. Per qualche ragione i due gruppi si allontanarono dalla guerra e continuarono a coesistere nella diffidenza, come prima. Il giro di soldi era enorme.

Ormai la polizia sapeva dell’esistenza di un uomo chiamato Di Lauro che era un camorrista della zona, ma non aveva sue fotografie e non capiva il suo ruolo. Pensava che fosse al massimo un capitano, per di più nel clan Licciardi. Alcuni inquirenti lavoravano al caso a tempo pieno. Continuavano a intercettare telefonate e a lavorare per sciogliere l’enigma. Raramente capivano le conversazioni: il linguaggio usato non era semplicemente sorvegliato, era un vero e proprio gergo sgrammaticato e localizzato, una sorta di microlingua che è necessario imparare per comprendere. Realizzando una mappa delle relazioni, si resero finalmente conto che si trovavano davanti a una struttura piramidale. Ascoltavano frequenti riferimenti a qualcuno chiamato Pasquale. A volte veniva indicato come “l’Uomo Coniglio”, stando forse a significare che aveva una famiglia numerosa o che era veloce. Sembrava proprio essere il boss.

Guerra Civile

Il punto di svolta nelle indagini arrivò per caso. Nel 1998, un maestro di una scuola elementare nel centro di Secondigliano sgridò un giovane cugino Di Lauro per essersi comportato male in classe, e uno dei figli di Di Lauro – un ragazzino di dieci anni di nome Antonio – prese le difese del cugino alzandosi e rispondendo alla maestra. La maestra reagì dando uno schiaffo ad Antonio. La notizia dell’incidente viaggiò in fretta. Si dice che quando il ragazzo arrivò a casa fu rimproverato da Di Lauro per il suo comportamento. Altri membri del clan, tuttavia, pensarono che la famiglia fosse stata insultata. Tre di loro andarono a scuola, scovarono il maestro e lo schiaffeggiarono come lui aveva schiaffeggiato il figlio di Di Lauro – o forse un po’ di più. E’ ovvio che Di Lauro non li avrebbe mai mandati, ma quando l’insegnante denunciò l’accaduto, la polizia ne approfittò per convocare Di Lauro al distretto e conversare con lui.

Entrò al commissariato in maniera pacifica, lasciando qualche affiliato di fuori: fu portato al quartiere generale della polizia in centro a Napoli, dove negò di essere a conoscenza della violenza e si proclamò commerciante. La polizia dovette rilasciarlo, ma non prima di aver scattato qualche foto segnaletica, tra le poche che mostrano Di Lauro. Tra queste, c’è una foto di Di Lauro quarantacinquenne con una camicia blu a collo aperto mentre emerge riluttante dall’ombra – i capelli che iniziano a cadere, barba appena fatta, impressionantemente riservato. Uno stoico al culmine del suo potere. C’è qualcosa nel suo portamento – con un accenno di sorriso che in realtà non è un sorriso e gli occhi che sottilmente evitano la macchina fotografica – che trasmette una risoluta autonomia. A volte insistette sul fatto che non si opponeva al governo, ma da queste foto è chiaro il motivo per cui il governo avrebbe dovuto invece temerlo.

Pasquale? Quando le intercettazioni telefoniche raccolsero le eccitate conversazioni sulla visita al comando di polizia da parte di Di Lauro, d’un tratto divenne chiaro che Pasquale e Di Lauro fossero la stessa persona, e pertanto che Di Lauro, che prima era considerato un personaggio di secondo piano, fosse in realtà un re. Di Lauro aspettò per lungo tempo questo disastro per colpire. Da osservatore della vita, non avrebbe dovuto sorprendersi che sarebbe successo a causa di un incidente così insignificante come un battibecco con un professore di scuola. Non potendo più nascondersi in piena luce del sole, si ritirò sempre più nel proprio mondo privato e iniziò una esistenza peripatetica, muovendosi tra austeri appartamenti nel quartiere e dormendo a casa solo occasionalmente. A volte viaggiava all’estero per concludere affari e giocare d’azzardo. Quando tornava, non menzionava mai dove fosse stato o cosa avesse fatto. A nessuno importava, a patto che lui rimanesse al comando. Divideva la sua ricchezza con Secondigliano, e oltre.

Molte persone credevano che lo stato fosse troppo debole per toccarlo. Di Lauro certamente sapeva perchè lo stato ci mise così tanto ad agire – se lo sarà sicuramente chiesto. Il problema per la polizia era che nessun testimone si faceva avanti per parlare contro il clan. Questo obbligava gli inquirenti a procedere nel modo più tedioso: continuando a intercettare i cellulari del clan (in totale 7990 conversazioni), archiviando le prove più succose della colpevolezza in grandi faldoni per una successiva visione del giudice istruttore. Dovevano rispettare gli standard legislativi antimafia italiani, simili allo statuto americano RICO, che prende di mira l’affiliazione diretta con cartelli criminali e consente l’incriminazione per omicidio anche per chi è responsabile di aver dato l’ordine.

Ci sono voluti quattro anni a partire dall’incidente dello schiaffo per costruire il caso, ma alla fine nell’ottobre 2002 finalmente fu dato l’ordine di arrestare Di Lauro e altri 61 membri del clan. In pochi mesi, molti di loro furono prelevati e messi in prigione. Alcuni erano molto vicini a Di Lauro, incluso il secondogenito del boss. Per quanto riguarda Di Lauro in persona, non si trovava da nessuna parte. Per anni si diede alla macchia. Alcuni dissero di averlo visto a Marsiglia, Atene, Londra o Milano. Alcuni giornali scrissero che era morto. Ma il suo avvocato mi disse che non solo era vivo, ma era rimasto a Secondigliano per tutto il tempo. Quando chiesi al suo avvocato perchè, allargò le mani come per dire “ovvio” e rispose: “Amava la sua famiglia.” In effetti, durante i suoi anni da fuggitivo lui e sua moglie concepirono il loro undicesimo e ultimo figlio.

L’avvocato mi disse che si chiese ad alta voce se il neonato fosse una bambina, almeno l’ultimo nato, e Di Lauro rispose che non poteva neanche tirare in ballo l’argomento con la moglie perchè avrebbe potuto prenderlo per una critica per non avergli ancora dato una femmina. Era ancora innamorato di lei. Non gli sarebbe importato di nulla se non fosse stato per la famiglia. Nel maggio del 2004 uno dei suoi figli fu ucciso in un incidente motociclistico. Era il passeggero di dietro, senza casco. Di Lauro era a pezzi, rimase come paralizzato per un po’. Questo può aiutare a spiegare perchè in quel periodo commise il più grave errore della sua vita, quando decise di lasciare il potere nelle mani del figlio che amava oltre ogni limite, Cosimo, il primogenito.

Cosimo, 30enne, era decisamente uno psicopatico conosciuto per la sua brutalità. Aveva capelli lunghi e secchi e portava vestiti neri imitando il personaggio gotico di fantasia del film Il Corvo. Aveva una Lamborghini a Parigi. Un rubacuori per le ragazzine di bassi classi sociali, che andavano matte per la sua aggressività e il suo stile. Per la stessa ragione era circondato da una banda di sicari tutti spavaldi. Cosimo ebbe a che fare con la camorra sin da quando era adolescente. Di recente, si accorse di come gli associati principali del clan, gli onorevoli  concessionari, fossero diventati troppo avidi e indipendenti e che suo padre – un mero contabile, in fondo – non avesse avuto il coraggio di affrontarli. Tutto questo stava per cambiare, ora che lui era al comando.

D’ora in poi tutte le partite di droga sarebbero state comprate esclusivamente dalla famiglia Di Lauro e gli associati sarebbero essenzialmente diventati impiegati, pagati quanto Cosimo pensava fosse giusto, e sotto il suo controllo. Chiunque avesse obiettato sarebbe stato sostituito – in una maniera o nell’altra. Era ovvio che quelli vecchio stile non avrebbero accettato questi termini, nè che parimenti avrebbero potuto accettare l’autorità di un leader così immaturo. Attraverso un intermediario, Di Lauro ordinò che il figlio desistesse. L’intermediario disse: “Porto un messaggio da parte di tuo padre. Non fare questa guerra.” Era troppo tardi. Cosimo rispose: “Papà non contà più.”

La guerra che seguì fu una delle più intense nella storia della camorra, in cui collisero una fazione dei vecchi associati al clan Di Lauro, chiamati da quel momento “scissionisti”, contro i nuovi assassini che si schierarono con Cosimo e mantennero il nome Di Lauro. Il conflitto esplose a fine 2004. A Secondigliano e Scampia quell’autunno e quell’inverno furono uccise almeno 54 persone, a volte più di una al giorno. Paolo di Lauro deve aver visto la cosa con disgusto e sgomento. In un’occasione, l’ex ragazza di un secessionista fu catturata dagli uomini di Cosimo, torturata (invano) per farle rivelare dove fosse il suo ragazzo e uccisa. Il suo cadavere fu bruciato in una macchina. Le persone si sentirono oltraggiate, perfino all’interno del clan, e parlarono: questo era quello che faceva Cosimo. La polizia emise un mandato di cattura nei suoi confronti. Si diede alla clandestinità in Secondigliano, ma mandò così tanti messaggi a varie fidanzate che fu rintracciato in poche settimane.

Quando la polizia fece irruzione, non era armato. Si avvicinò ad uno specchio, si si sistemò indietro i capelli e si mise il suo cappotto di pelle nero affinchè si abbinasse al suo maglione nero e ai suoi jeans. Era un gennaio pomeriggio del 2005. Mentre la polizia lo arrestava al piano di sotto, diverse centinaia di donne del quartiere si diedero appuntamento sul luogo e iniziarono la rivolta. Lanciarono carta igienica e ogni genere di oggetto sulla polizia da una finestra al piano superiore e incendiarono due auto delle forze dell’ordine. Cosimo emerse, circondato da poliziotti, e guardò dritto nelle telecamere della stampa. Era come una rockstar in posa per i paparazzi. Le immagini fecero il giro dei cellulari delle ragazzine di tutta Napoli. Era fiero di quello che aveva fatto? Le guerre sono così facili da iniziare e difficili da terminare. Cosimo durò un altro mese o due, e finì per distruggere tutto quello che suo padre aveva costruito.

Per il clan di Lauro, era essenzialmente una sconfitta militare. Gli scissionisti erano più numerosi, più esperti e meglio equipaggiati; i Di Lauro contavano solo dei pretendenti che avevano accettato la guida di Cosimo. Alla fine fu Paolo Di Lauro, ancora in clandestinità, che cercò la pace. Appuntamenti tra inviati [delle due fazioni] furono organizzati e la sicurezza garantita da altri clan. Per essere maggiormente sicuri, dei familiari furono scambiati come ostaggi durante gli incontri.

Alla fine le due parti si accordarono su tre condizioni cruciali. Una: i seccessionisti sarebbero diventati un nuovo clan, senza obbligazioni nei confronti di alcun Di Lauro. Due: gli scissionisti che avevano lasciato i loro appartamenti potevano fare ritorno senza rischi a Secondigliano. Tre: Paolo di Lauro avrebbe ammesso che la sua famiglia aveva perso la guerra, e con essa i diritti a tutte le piazze tranne una straduzza nel centro di Secondigliano, un complesso di appartamenti vicini, in un bastione di lealisti chiamato Rione dei Fiori, dove le donne si erano rivoltate per il suo amato figlio psicopatico.

Nell’estate del 2005 c’era così tanta quiete sul fronte nord della provincia che i napolitani pensarono che Di Lauro era tornato al suo posto di comando. Una buona notizia, piuttosto che una cattiva. Le persone non sapevano che avesse perso il potere e non potevano immaginare che un simile uomo potesse mai essersi arreso. Pochi mesi dopo, il 16 settembre 2005, fu trovato dalla polizia in un semplice appartamento di una donna umile che gli aveva dato cibo e rifugio in cambio di un compenso. Non oppose resistenza nè fece alcun commento mentre lo prendevano. Pareva che se lo aspettasse. Quando fu portato fuori, mantenne la testa abbassata per evitare i fotografi. Non si pavoneggiò. Al commissariato, quando glielo chiesero, rispose come aveva fatto in passato: “Sono Paolo di Lauro, e sono un commerciante.” Poi, da quel momento in poi, si ammutolì.

Isolamento

Quindi l’amore è pericoloso, dopo tutto. Paolo Di Lauro fu processato nella primavera del 2006. Il primo grado di giudizio lo passò in modo tranquillo, senza emozionarsi come sarebbe stato prevedibile. Era vestito in maniera modesta. A metà del processo circa, mentre sempre più accuse gli erano mosse, smise di partecipare alle udienze, rinunciò alla sua difesa e licenziò il suo amico avvocato di vecchia data. Gli disse: “Non offenderti. Non c’è nessuna volontà di mancarti di rispetto.” Ma non c’era motivo di andare avanti. La corte gli assegnò un avvocato d’ufficio, come vuole la legge, e nel maggio 2006 Di Lauro fu condannato al primo di quello che poi sarebbero diventati tre periodi consecutivi di trent’anni di prigione per associazione mafiosa, traffico di droga e omicidio. Suo figlio Cosimo fu condannato all’ergastolo in processi separati. La corte sequestrò tutti i beni dei Di Lauro che fu possibile trovare.

Fu una vittoria per lo stato, ma vuota. Un’altra guerra esplose di nuovo nel 2006 fra gli scissionisti e il clan Di Lauro, questa volta capitanato da un altro figlio, e sette persone furono assassinate. Le dinamiche della violenza furono estremamente complesse. Si crede che alcuni dei morti siano stati ammazzati dai Licciardi per incitare la violenza in entrambe le parti. Nell’estate del 2007 successe ancora, e 11 alti associati dei Di Lauro furono uccisi. Lo stesso anno un gruppo di lealisti che si era mantenuto fedele al clan nei momenti peggiori tagliò i ponti, disgustato, e assunse il controllo della via principale di Secondigliano, lasciando i Di Lauro pateticamente indeboliti e con solamente la piazza a Rioni dei Fiori a disposizione per il traffico di droga. Li vicino, a Scampia, gli scissionisti avevano il controllo di molte piazze, ma erano incapaci di iniziare una nuova era di pace, come avrebbero dovuto volere. Al contrario, accadde l’opposto, e la guerra continuò per ragioni che assunsero contorni sempre più meschini e confusi.

Nel 2010 gli scissionisti si separarono a loro volta in due gruppi – i veterani della guerra con Di Lauro, chiamati i “Vecchi Colonnelli“, e gli ultimi arrivati guidati da un ragazzo notoriamente violento sulla ventina, noto come Mariano, che gira per il paese non su uno scooter, ma su una potente moto bicilindrica Transalp con indosso un casco integrale, come usano fare i killer. La polizia sa che è lì, ma non può trovarlo. È fatto di coca ed è certo di morire giovane, ma chiaramente non gli importa.

Questa la situazione sul campo oggi, un caos costante di rivalità sanguinose e scissioni che non sembrano volersi finalmente risolvere. È il cammino della camorra a Napoli, così come lo è sempre stato. Ci sono periodi di caos, seguiti da altri di calma quando salgono al potere uomini come Di Lauro, seguiti nuovamente da altro caos quando gli uomini come Di Lauro cadono. Ciò che rimane del suo clan è ora comandato da un figlio chiamato Marco, un fuggitivo dalla legge, che è comunemente disprezzato per la sua debolezza e la sua avventatezza. Da qualche parte a Napoli, in qualche altra famiglia, il prossimo grande leader è già nato, ma non può essere identificato finchè non emerge sulla scena dimostrando particolare forza o saggezza.  Nel frattempo, per quelli coinvolti nei giochi a Scampia e a Secondigliano, ci sono molte diverse maniere di morire, e ognuna di queste è una sorpresa.

Il Governo si aggira per questi luoghi, incerto della sua stessa missione. Devi chiederti cosa stia tentando di ottenere quando, per esempio, ferma alcune persone per interrogarle per la strada o ne getta in cella alcune per sempre. In posti come l’Italia – dove l’ultimo Presidente del Consiglio condona l’evasione fiscale, giustificandola come un atto naturale, e sfida pubblicamente i tribunali – è diventato difficile credere che le azioni della polizia siano sinceramente mirate a ristabilire la legge, o che i funzionari dello stato credano ancora che la legge conti qualcosa.

Mentre la guerra cammorristica si scatenava, l’Italia stessa stava barcollando sul ciglio del collasso economico, minacciando di trascinarsi con sè l’intera Europa – in gran parte a causa della mala amministrazione di una succesione di governi cinici e corrotti.

Un giorno a Napoli mi fu detto di una retata della polizia in corso contro ciò che era rimasto del clan Di Lauro a Secondigliano. Mi sono precipitato a Rioni dei Fiori e mi sono ritrovato davanti a una scena teatrale, un elicottero che torreggiava nel cielo e le strade sorvegliate da agenti in divisa che effettuavano posti di blocco. Al centro dell’operazione c’era proprio la piazza, un tipico miserabile complesso di appartamenti costruito attorno ad una piazzetta centrale piena di spazzatura e macchiata con almeno una grossa chiazza di escrementi umani. Come risultato, la droga non fu trovata nè furono effettuati arresti. I vigili del fuoco sfondarono una porta di acciaio e rimossero alcune fortificazioni che il clan aveva installato all’ingresso del cortile interno. La retata a quel punto era terminata. L’uomo che lo comandava era un commisario. Gli chiesi quale fosse il punto dell’operazione. “Una dimostrazione di potere statale,” mi disse. “Far fuggire gli spacciatori come ratti. Era umiliazione pubblica. Questo era lo scopo. Ma non siamo stupidi. Sappiamo che ora torneranno a riprendersi il controllo della piazza e degli accessi. Probabilmente entro domani. Vedi, possiamo fare pressione alla camorra, ma non possiamo fermarla.”

E forse non importa. Le persone possono torcersi le mani per l’orrore di tutto questo, ma questa è Napoli, una delle grandi alternative alla vita moderna. È possibile che il mondo non possa più sradicare la camorra, tanto quanto possa permettere che i napoletani diventino efficienti. E poi c’è il lato pratico. Un giudice anti-mafia mi disse che alcuni poliziotti – anche quelli che non sono stati corrotti – non vorrebbero vedere lo stato vincere per paura di che si venga a creare solo un disordine più grande. Un altro giudice mi fece notare che il governo ha bisogno della camorra per il controllo sociale. Mi disse: “Per un leader politico, è più facile parlare con un boss della camorra che fare arrivare il messaggio a 100mila persone.” In aggiunta, mi disse che la camorra crea delle regole, fa rispettare le leggi, fa sì che  l’operato della polizia sia tenuto sotto controllo, respinge esattori delle tasse troppo aggressivi, impiega una grossa percentuale della popolazione, crea e distribuisce ricchezza in maniera più efficiente di ogni altro settore della società e permette che le cose procedano, specialmente in tempi come questi in cui l’economia nazionale è fallita e la moneta stessa è a rischio.

Non è il sistema che uno si sognerebbe in una società civile. Ciononostante, la camorra serve la società meglio quando è forte. Tutti i giudici a cui ho parlato hanno riconosciuto questa verità, e tuttavia alcuni di questi erano le stesse persone che avevano beccato Di Lauro. Gli chiesi se credevano nella superiorità dello stato italiano, e mi risposero tutti di no tranne uno. Quest’ultimo mi disse, letteralmente, “Non abbiamo scelta. La camorra ha creato l’anti-stato, la cui esistenza stessa mina la legittimità dello stato italiano. Se la magistratura non agisse, non sembrerebbe reale. Se la magistratura non fosse reale, l’Italia non durerebbe. Il nostro ruolo non è quello di prevalere contro la camorra, ma di cogliere i movimenti delle cose.” Menzionai questo ad un avvocato difensore della camorra. Conosceva questo giudice. Mi rispose: “L’anti-stato è ormai lo stato vero e proprio. È lo Stato, non la camorra, che sta strangolando l’Italia.” Sembrava preferire i criminali alle forze dell’ordine. La maggior parte dei napolteani sarebbe d’accordo. Essi dimostrano ogni giorno fino a che punto si può vivere senza Italia. E se Di Lauro tornasse indietro, le celebrazioni farebbero chiudere tutto in città. Probabilmente non avverrà mai.

Di Lauro compirà 59 anni in una cella di massima sicurezza a 60 km a nordovest di Roma, nella provincia di Viterbo. E’ in custodia sotto il regime carcerario del 41-bis, un programma di isolamento severo e a tempo indeterminato per il quale i boss mafiosi possono essere tenuti sotto sorveglianza 24 ore su 24, senza contatti nemmeno con le guardie o accesso all’informazione nazionale o regionale, potendo godere solo delle visite dei propri avvocati e, solo per un’ora al mese – dietro un vetro, attraverso un telefono monitorato – di un membro stretto della loro famiglia accompagnato solo da bambini minorenni. L’intento primario è quello di separare i boss mafiosi dalle loro organizzazioni, e di evitare che dirigano le operazioni da dentro il carcere. I risultati, tuttavia, sono talmente estremi che nel 2007 la Corte Europea dei Diritti Umani si espresse sostenendo che certi aspetti violavano le convenzioni europee dei diritti umani, e nello stesso anno un giudice americano negò l’estradizione di un trafficante di eroina per paura che il 41-bis potesse venirgli applicato e potesse configurarsi come tortura. Infatti, il regime carcerario, che è facilmente revocato quando vuole un governo, è servito frequentemente come arma di ricatto, persuadendo una serie di tipi tosti a testimoniare in tribunale in cambio del sollievo dalla promessa di eterna solitudine.

Ma Di Lauro non è uno di questi. Non è chiaro se non abbia nulla da leggere. Si dice che passi il suo tempo in contemplazione e fumando sigarette a ripetizione. È una reazione straordinariamente disciplinata. Sa che può smettere di soffrire se solo si decide a parlare, ma si rifiuta di farlo. Al contrario, ha scelto il cammino opposto, ancora più estremo del 41-bis, rifiutando non solo ogni contatto con il suo avvocato, ma anche le conversazioni che gli sono concesse una volta al mese con la moglie. Deve amarla ancora, ma è il campione del silenzio. Intrappolato dallo stato, rimane padrone del proprio destino.

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