Ogni sette anni prendo in mano un grande setaccio, come quelli che il cinema ci ha abituato a vedere nelle corse all’oro. Mi fu regalato a ventuno anni da un un Vulcano di luce marina del centro America. Ora ho imparato, scendendo non visto al fiume, ad immergerlo parzialmente, con calma e una decisa attenzione. Sottopongo così tutto il raccolto di questi duemilacinquecentocinquantacinque giorni, al lavaggio delle acque.

Le prime volte non sapevo come e perché usarlo e, tolto il fango e la polvere, raccoglievo di tutto e di più con il rischio di perdere, fra le cianfrusaglie della vita, cose importanti e delicate. Anni fa, fortunatamente, dopo aver incontrato una sciamana che mi rapì portandomi via con una vespa, ho imparato. E dopo aver moltiplicato per otto i sette anni necessari, sono più accorto e, finito di scavare, raccogliere e lavare, poche sono le preziosità della vita che mi trattengo sul cuore. Le poche che rimangono lì, brillano sopra la fitta rete, e io palpito per tutte loro.

Il resto sinceramente lo lascio andar via.

E da quando lo sguardo mi si è rivolto al “ciò che è stato”, penso spesso al futuro con rinnovata passione. Voglio trattenere solo ciò che ha per me un’eco della mia passione.

Prima non era così, perdevo e vincevo persone a cui ora chiedo scusa, sperando nel loro perdono. Perdevo bellissime cose con incosciente serenità. Ma si sa, quando si è giovani si è malati di preoccupante immortalità. Ora finalmente tutto mi è più chiaro, e son guarito dalla maschile stupidità e certo non mi voglio far sorprendere dal tempo che non fu. Giro per strade improvvisamente aperte e cerco chi fu dolce e gentile, chi fu capace di innamorarsi con me delle vita. E non intendo più farne a meno. Se solo fosse un saluto da salvare, è questo che intendo salvare come la cosa più preziosa da ritrovare.

Un amico, Elvis, canadese con una chitarra blues, mi disse intorno a un tavolo: “Ora lo sappiamo, alla nostra età non ci si può perdere. Se ci si ritrova è necessario riconoscersi e non lasciarsi mai più”.

Salsa Guatemalteca di peperoncino e cipolla bianca

Se non avete il loro peperoncino selvaggio, teso con la sua pelle ai suoi due unici semi, piccolo e potentissimo, raccolto ancora verde e pieno di aromi, andrà benissimo quel che avete sotto mano. Raccolto acerbo, sempre verde mi raccomando, prendetelo e tritatelo finemente, amalgamandolo poi in un soffrittino di cipolla più stufato che soffritto per poi conservarlo in barattolini riposti lontano da mani imprudenti. Usatelo in aggiunta al vostro panino preferito o per arricchire peperoni arrostiti, melanzane sott’olio e per misuravi con uova affrittellate che sosterrete “di origine Maya”. Mentre respirerete a bocca aperta per riprendere fiato, ricordatevi che la vita, così, è più bella.

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