Dell’Utri è stato in rapporti con la mafia, capeggiata prima da Bontade e poi da Riina, “avvalendosi dei poteri che gli derivavano dalla sua importante posizione nel mondo imprenditoriale e intrattenendo rapporti (evidentemente, di rilievo penale) con Bontade, Teresi, Pullarà, Mangano, Cinà e numerosi altri ed è stato condannato (dalla Corte d’appello) per avere determinato il rafforzamento del sodalizi, esercitando i poteri di influenza che gli derivavano dalla precisa collocazione nel mondo imprenditoriale dell’epoca e dai rapporti personali con i vertici di Cosa Nostra”. Così la Cassazione; che però non ha confermato la condanna e ha rinviato tutto alla Corte d’appello perché manca un’adeguata motivazione al permanere di tale condotta nel periodo tra il ‘77 e l’82, quando Dell’Utri lavorava con Rapisarda e non con Berlusconi.

Alla fine di questo nuovo processo sapremo finalmente se Dell’Utri è stato mafioso dal ‘77 al ‘92 o solo dall’82 al ‘92. Avessero detto “chi se ne frega se sei stato mafioso per 15 anni o solo per 10, quella è la cella, accomodati” sarebbe stato meglio. In Usa sarebbe andata così; ma l’Italia, si sa, è la patria del diritto.

Il che ci porta a un’altra formidabile masturbazione giuridica. Ricordate il pg Iacoviello che, chiedendo il rinvio del processo Dell’Utri alla Corte d’appello, aveva detto (sciagurato): “Al concorso esterno in associazione mafiosa non ci si crede più”? Pensava, il tapino, che se uno faceva le cose che ha fatto Dell’Utri non “concorreva” con gli associati mafiosi; era proprio un associato. E, se invece faceva cose diverse, tipo intermediare tra la mafia e Berlusconi per scucire soldi al suo padrone rappresentandogli le gravi conseguenze cui andava incontro se non pagava, allora concorreva nel reato di estorsione (che, chissà perché, non gli è stato contestato). Se invece si limitava a raccogliere i soldi che Fininvest pagava alla mafia per le antenne televisive, si trattava di favoreggiamento. Insomma, tutto semplice, chiaro e, soprattutto, rapido; che è quello che manca ai processi di mafia. Però la Cassazione ha detto che il concorso esterno in associazione mafiosa è cosa buona e giusta…

Mah! Proviamo a capirci con un esempio. Tre o più persone costituiscono un’associazione mafiosa: minacciano, uccidono, influiscono su uomini politici, controllano il territorio; e tutte queste cose garantiscono all’associazione autorità e potere. La gente ha paura e obbedisce. E più diffusamente questo avviene più il suo potere si accresce. A un certo punto ai 3 si avvicina un quarto: è un importante imprenditore e si dichiara disposto al rafforzamento del sodalizio esercitando l’influenza che gli deriva dalla sua collocazione nel mondo imprenditoriale. Lo farà quando gli sarà possibile; al momento, guarda caso, c’è da fare un’estorsione a B… E poi ci sarà da pretendere il pizzo per le antenne televisive; e poi, bè, vedremo. Sì, sì, ci fai comodo, la mafia ha bisogno di tutti: killer, ragionieri, politici, imprenditori. Ognuno porta il suo mattone alla costruzione complessiva; ognuno “concorre” al successo dell’associazione. Che, questo è importantissimo, è reato di per sé, anche se non si commettono reati ulteriori (che so, estorsioni , traffico di droga).

Sicché tutti quelli che, in un modo o nell’altro, le conferiscono “potere” commettono il reato di cui all’art. 416 bis del codice penale. Ma allora, se uno fa quello che serve alla mafia nell’ambito delle sue caratteristiche e capacità (e ne è consapevole), perché dovrebbe concorrere “esternamente”? Mafioso semplice è, non concorrente “esterno”. Ma entrare a far parte della mafia mica è così semplice! Ci va l’iniziazione, il bacio, l’abbraccio, il polso tagliato per mischiare il sangue! Se tutto questo manca sono proprio i mafiosi che non considerano Dell’Utri o chi per lui uno dei loro! Dunque non si può dire che sia mafioso in servizio permanente effettivo. E allora? Valgono le regole dei mafiosi o le regole del diritto penale italiano? Chi si adopera consapevolmente in favore dell’associazione mafiosa è un mafioso, questo dice la legge dello Stato. Se poi la mafia vuole una cerimonia formale sono fatti suoi. E attenzione, si può partecipare all’associazione mafiosa anche solo per un tempo limitato; mica si deve essere mafiosi per tutta la vita.

Su questa cosa a Palermo si è litigato un sacco. E i nodi vennero al pettine al tempo del processo Cuffaro (mafia, sanità, forze dell’ordine, politica). Cuffaro è un mafioso, dissero alcuni. Non riusciamo a provarlo, disse il procuratore Grasso. Allora è un concorrente esterno. Ma è lo stesso, la prova sempre quella è, restiamo nei guai. Così Grasso propone: tutti quelli che riusciamo li incriminiamo per associazione mafiosa; gli altri (tra cui Cuffaro) concussione, violazione segreto, favoreggiamento… tutto aggravato per via della mafia; così siamo sicuri della condanna. No, sì, no, sì. Alla fine Grasso decide: si fa come dico io. E Cuffaro fu condannato e adesso sta in prigione. Vittoria, questo è il metodo che funziona, altro che i processi alla Mannino, Carnevale… si va dritti al risultato. Però qualcuno a Palermo non ci sta e indaga di nuovo Cuffaro per concorso esterno. Ma il gup si rifiuta di procedere, dice che è ne bis in idem, che vuol dire che per quei fatti Cuffaro è già stato giudicato e che la qualificazione giuridica era corretta. La Procura ha fatto ricorso…

Alla fine la domanda è: ma non basterebbe metterli in prigione per frode fiscale (o favoreggiamento o altra roba semplice) come si fece per Al Capone? E nel tempo che avanza fare altro?

Il Fatto Quotidiano, 26 Aprile 2012

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