La memoria, è il fondamento del pre­sente; non esiste l’oggi se non viene da qualche parte; il presente è inesistente se non ha la memoria che l’origina e lo nutre. I figli esistono perché sono esi­stiti i padri, e non viceversa. Non si può spuntare dal nulla.

Molti italiani in Svizzera si sono stabiliti in quel paese nel periodo di guerra, molti vi si sono rifugiati. Spesso mi è capitato di incontrarli o di ascoltare i ricordi dei loro figli. Io, con loro avevo una storia in comune, ed il 25 aprile nelle varie manifestazioni sulla Resistenza che in questi ultimi anni sono state più frequenti tra gli italiani in Svizzera piuttosto che in Italia, l’ho raccontata in tante occasioni. E’ la storia del partigiano del mio partigiano.

Aveva diciotto anni, un fisico tempra­to negli stenti dell’Italia degli anni tren­ta, l’entusiasmo incosciente di chi è gio­vane, la voglia di vita di ragazzo del sud, che ti fa scorrere nelle vene calore, sole e ottimismo.

Quando nelle vicinanze di Ferrara un comandante Inglese gli chiese, da dove venisse e dove fosse diretto, lui gli rispo­se che andava verso sud, tornava a casa, l’esercito era stato sciolto. Poi, disse al comandante, dove erano posizionate le linee tedesche, e fu così preciso nei det­tagli che l’inglese ne rimase stupito ed affascinato. Come poteva un ragazzo ita­liano avere tanta “visione” strategica, e tanto coraggio da suggerire agli inglesi  dove attaccare i nazisti.

Ad operazioni concluse il comandante gli propose di arruolarsi nelle forze alleate, nell’avia­zione, e lo fece accompagnare a Brindisi dove per sei mesi lo addestrarono come paracadutista. Egli pensava spesso a casa, ma non c’era tempo per pensarci troppo, la guer­ra al nazifascismo non aveva ancora un esito scontato. All’improvviso gli arrivò l’ordine di partire e la sua gioventù ebbe il sopravvento su qualsiasi altra raziona­le decisione. Gli proposero una missione ed egli accetto senza indugio, non imma­ginando cosa l’aspettava. Gli dissero: ti paracadutiamo oltre le lince nemiche in territorio occupato, nei pressi di Rovigo con una radio ed attrez­zature militari; lì prenderai contatto con una cellula locale di partigiani, che gui­derai, mettendo in piedi nelle colline del vittorio-veneto attività di informazione via radio sugli spostamenti dei nazisti ed eventuali attività di rappresaglia, “buona fortuna”. E ce ne volle di fortuna, a quel giovane non ancora ventenne, tra i boschi, alla macchia, nei fienili maleo­doranti, tra il freddo, le nebbie, i rumori della guerra, l’odore della morte che ti rimane appiccicato addosso.

“Romano” fu il suo nome di battaglia, accesi e fiammanti i colori di quegli anni che non avrebbe mai dimenticato. Colori che sarebbero ritornati forse un giorno. Romano spostava la radio e comunicava con le truppe alleate informazioni utilis­sime. Ogni giorno in posti diversi, quel­la radio era la vita per la resistenza: senza gli assidui bombardamenti alleati la capacità di riorganizzazione dei nazi­sti avrebbe resistito chissà per quanto tempo. Lui solo conosceva l’esatta ubi­cazione della radio che doveva spostare continuamente; neanche gli altri parti­giani sapevano dov’era, troppo pericolo­so perderla; gli uomini potevano anche essere sostituiti, gli avevano detto a Brindisi, la radio sarà impossibile ricol­locarla oltre le linee. Romano faceva bene il suo lavoro ed i suoi compagni anche, tutto funzionava, ma un giorno …

Un giorno i nazisti catturano Romano, lo portano in città a Rovigo, lo chiudono in un carcere e lo torturano per alcuni giorni; non lo ammazzano subito perché intuiscono che nasconde qualcosa di pre­zioso e vogliono capire cosa. Lui non cede, non una parola su chi era., non una parola sui compagni. non una parola: solo sangue, dolore e fretta di morire.

Dieci giorni passati nella convinzione di dover morire, avendo voglia di finirla presto. Gli dissero che lo avevano con­dannato a morte, e lui aspettava la fuci­lazione come la salvezza. Era consapevole che tutto sarebbe fini­to lì, a Rovigo in un grigio cortile del carcere. Era nato in un carcere Romano, a Bari, suo padre era il capo delle guar­die del carcere, aveva vissuto tutta la sua vita abitando dentro le carceri. Gli pareva un ottimo epilogo quello di finire la sua esistenza in carcere, gli sem­brava un segno del destino .. Ma la notte precedente alla fucilazio­ne, non dormiva il barese Romano, non chiudeva gli occhi, ripassava a mente tutti i suoi anni, la memoria lavorava fra­stornandolo, volti colori, immagini, l’az­zurro del mare, la bellezza delle donne, la leggerezza dell’amore. Era notte. l’ul­tima notte della sua meravigliosa vita.

Non aveva paura, aveva già fatto i conti con quel suo passaggio terreno, ormai era pronto. aveva preso, con la mente e la memoria, commiato da tutti.

Aveva salutato tutti, non si era scordato nessuno: al futuro non ci pensava, era soltanto notte. Rumori, spari. detonazioni, qualcosa succede. Gridano fuori, muoiono, le mitraglie cantano orrore, la notte si illu­mina di bagliori sconosciuti. Romano viene liberato da una azione partigiana coordinata dalle forze alleate. Il carcere di Rovigo viene preso d’assalto e quel ragazzo barese/romano, liberato: la radio era troppo preziosa. Da allora la guerra partigiana di Romano continuò fino alla liberazione. Ma la vita, la sua vita, da allora in poi, da quella notte di Rovigo egli la considerò un grande regalo.

Mi disse una volta: “per me tutto quel­lo che è venuto dopo è stato un grande regalo. ormai avevo salutato tutti”. Fu decorato con medaglia d’argento al valor militare. E da allora ogni 25 aprile, indossava l’abito buono; vi appuntava la medaglia e si recava nelle scuole o nelle celebrazioni ufficiali a ricordare ì valori indispensabili della Resistenza e della lotta partigiana.

E’ stato per lunghi anni presidente dell’ Anpi della Puglia, e vicepresidente nazionale della prestigiosa Assocìazione Nazionale Partigiani d’Italia, ma soprat­tutto trasmise quella sua esperienza e memoria nelle tele dei suoi quadri, poi­ché diventò anche un noto artista.

La pittura e l’arte, la poesia diventaro­no l’espressione naturale del suo modo di essere, e nei suoi lavori traeva sempre ispirazione dai fondamentali valori della libertà, della democrazia, dell’antifasci­smo, della Resistenza che lo avevano regalato alla vita.

Visse con disinvoltura e leggerezza, la medaglia d’argento al valor militare, fino al gennaio del 200l.

Sulla sua lapide vi è una scritta una sua poesia “Cosa fai? Dipingo. Perché? Per non morire. Cosa dipingi? La vita. Perché? Per poter morire.”

Quel partigiano che ancora molti ricor­dano nel suo paese, si chiamava Osva1do, mi ha trasmesso molto: la sua memoria. i suoi valori, la sua avventura, il suo innato senso di libertà e di amore per la vita, il suo coraggio ….. il suo cognome… quel partigiano è mio padre

 

 

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