Mitt Romney prosegue la corsa – ormai quasi solitaria – delle primarie repubblicane e incassa cinque vittorie sonanti nel New England, nello Stato di New York e in Pennsylvania e ancora in Rhode Island, Connecticut e Delaware. Ma un professore americano che ‘mixa’ la matematica e la politica è già sicuro che tutto questo ‘ambaradan’ elettorale non serva a nulla, perché il presidente uscente, il democratico Barack Obama, ha in tasca 10 delle 13 chiavi della Casa Bianca ed è quindi sicuro d’un secondo mandato.

Ma andiamo con ordine. Le primarie vanno avanti, anche se, da quando l’integralista cattolico Rick Santorum s’è ritirato, la ‘nomination’ del moderato mormone Mitt Romney non fa più l’ombra d’un dubbio. Al punto che pure il veterano ultra-conservatore Newt Gingrich sta per annunciare l’abbandono. In corsa con Romney, per il principio, ma non per la vittoria, resta solo il libertario Ron Paul.

Nei cinque Stati alle urne il 24 aprile, Romney ha ottenuto percentuali di voti oscillanti tra tre quinti e due terzi: non ha ancora messo insieme i 1143 delegati necessari a garantire aritmeticamente la ‘nomination’ alla convention di Tampa in Florida a fine agosto, ma è ormai oltre quota 900. “Vinceremo”, ha detto Romney ai suoi sostenitori. E a tutti gli elettori: “Tenete duro ancora un po’: un’America migliore sta per cominciare”, ripetendo le accuse standard al presidente Obama, cioè di non avere mantenuto le promesse di speranza e di cambiamento fatte nella campagna 2008.

E che c’entrano le chiavi, con tutto questo? A ogni campagna elettorale, salta fuori una teoria politico-matematica basata sull’analisi dei risultati delle presidenziali Usa dal 1860 al 1980, cioè da Abraham Lincoln a Ronald Reagan. Il metodo s’è poi rivelato capace di predire esattamente l’esito delle successive. L’idea, di matrice russo-americana, individua 13 variabili, o chiavi: il partito al potere vince, se ne possiede almeno 8. E Obama, attualmente, ne ha addirittura 10. Roba che Romney farebbe meglio a smettere di gettare i soldi dalla finestra da qui a novembre.

Certo, il metodo, di cui i politologi contestano la scientificità perché i criteri sarebbero soggettivi, non è a prova di fallimento, anche se finora è stato infallibile: è basato sul principio che le elezioni sono sostanzialmente un referendum sulla prestazione del partito al potere. Le variabili riguardano, ad esempio, il bilancio del presidente in carica dall’economia alla politica estera e la sua popolarità. Per il professor Allan Lichtman della American University, uno dei padri del metodo, la vittoria d’Obama è acquisita salvo in caso di “catastrofe economica”, “di terribile disastro in politica estera” o di “scandalo presidenziale”. Ma, fin lì, c’eravamo arrivati anche noi, senza chiavi e senza matematica. E allora, poveri repubblicani? Il prof. Lichtman una ciliegina in serbo per loro ce l’ha: le elezioni del 2016 si presentano molto meglio per i conservatori. Andatelglielo a dire a Romney, che s’è sbagliato di quattro anni.

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