Non posso più sentire la parola crisi. Mi viene l’orticaria al solo sentire la prima sillaba cr.. Sì, siamo in crisi. Ma basta ricordarci – ogni sacrosanto minuto della giornata – i più cupi catastrofismi. La psicosi da crisi può fare più danni della stessa crisi. Ormai si è perso il conto dei suicidi per la crisi. Sembrano i racconti della Grande Depressione del 1929. D’accordo, parlarne sensibilizza le coscienze, ma parlarne in maniera ossessiva non aiuta a migliorare le cose. E’ solo una riflessione sull’essere ottimisti quando tutti sono pessimisti. E magari riuscire a intravedere, sopra la nuvola plumbea che ci sovrasta, difficile da bucare, anche qualche buona opportunità. Insomma, non sprecare una buona crisi… Perché come diceva Einstein: “La crisi è la più grande benedizione per le persone perché la crisi porta progresso.” Compiere quello “scatto in più” proprio nel momento più difficile e non rimanere inermi in attesa di “tempi migliori”.

Al capezzale dell’economia planetaria si affanna una pletora di politici, banchieri ed economisti, cercando di salvare un modello superato, quello che ha reso ognuno di noi il consumatore perfetto, quello che spendeva tutto ciò che guadagnava, anzi, ancora prima che lo guadagnasse. Coccolato, com’era, da un sistema creditizio malato di onnipotenza, convinto di essere immortale. Per anni le banche hanno venduto denaro che non esisteva, vendendolo in cambio di denaro inesistente. I fondi d’investimento e poi i fondi di fondi hanno venduto titoli costruiti sulle promesse di pagamento di povera gente allettata all’acquisto dalla banca d’investimento di turno, pur non avendo il denaro per poterlo fare. Ma niente paura, ci pensa la Banca. Ve lo presta lei il gruzzolo, ve la compra lei la casa. Il vero business non era il prestito. Era creare il derivato sul prestito. Da vendere poi, centinaia, migliaia di volte con profitti esponenziali. Mentre il mutuatario non ce la faceva più a pagare le rate del mutuo, i derivati, fondati sulla sua promessa, entravano – come un virus – in tutto il sistema economico occidentale, mettendolo rapidamente in ginocchio. E fu la crisi.

Sì, siamo in crisi o cerchiamo di tenere ancora in vita un sistema ormai agonizzante? I consumi sono in calo, i negozi si svuotano, la morsa fiscale strangola e gli italiani non hanno più buchi per stringersi la cinghia.

Ma proviamo a gettare uno sguardo oltreoceano dove si potrebbe imitare qualche idea. Lì dove la crisi ha creato nuove opportunità. L’Argentina, per esempio, era un Paese in bancarotta, i buoni del tesoro erano diventati carta straccia, credibilità internazionale ridotta al lumicino. Eppure gli Argentini, molti di loro figli e nipoti di nostri immigrati, si sono rimboccati le maniche e si sono sforzati di trovare alternative. Non sarà un modello esemplare, ma almeno ci stanno provando. E con fantasia e un po’ di temerarietà sta arrivando qualche buon risultato, come la trasmissione Report ci ha mostrato qualche giorno fa.

250 imprese nella zona di Buenos Aires, praticamente fallite all’epoca dei tango bonds, sono state recuperate dagli stessi lavoratori adottando uno schema produttivo basato su un modello cooperativo e solidale. Cosa significa? L’azienda non è più amministrata secondo la logica globale del massimo profitto, ma è volta ad una produzione di beni e servizi che soddisfi i bisogni delle comunità locali, formate, per la più parte, dagli stessi gruppi di lavoratori i quali diventano piccoli azionisti e consumatori.

Così si crea un tessuto sociale con un più alto tasso di occupazione e un mercato ricettivo che garantisce salari soddisfacenti.
In tal modo, la disoccupazione in Argentina è passata negli ultimi anni dal 25 % al 10%.

Mentre da noi la disoccupazione giovanile raggiunge picchi anche del 30%.

Januaria Piromallo

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