Immagina una storia semplice, così semplice da apparire quasi insipida e convenzionale: per esempio, la vita ordinaria di un uomo vissuto in America tra gli anni Dieci e Cinquanta del secolo scorso, uno che nasce da una coppia di contadini poverissimi, che si iscrive all’università quasi per caso, che finisce per insegnare in quella stessa università fino alla fine dei suoi giorni, che in tutta la vita ha due soli amici (uno dei quali muore in giovane età), due soli nemici (la moglie e un collega accademico molto potente), due soli amori (sua figlia e una sua studentessa), che si lascia lentamente massacrare dalla banalità della vita e delle persone senza opporre quasi mai resistenza, che infine muore, perché la storia semplice di un uomo inizia e finisce con una nascita e una morte, che non lascia di sé né traccia né ricordo.

Ora immagina che questa storia seduca uno scrittore di romanzi che decide di farne, appunto, un romanzo, e che poi seduca un editore, che a sua volta decide di trasformare quel romanzo in un libro di 320 pagine, e che infine seduca una schiera di lettori che danno a questa storia una dignità e un senso. Una volta immaginato tutto questo, prova a pensare per quale motivo una storia del genere, l’epopea remissiva di un uomo oppresso, riesca a superare tutti i passaggi, ad essere pubblicato, dimenticato, poi di nuovo riscoperto e acclamato, e che riesca alla fine a conquistare il mondo delle lettere. Ecco, ora hai davanti agli occhi un esempio fulgido e magnifico della perfetta insondabilità e del fascino imperscrutabile della grande narrativa d’invenzione.

Questo è Stoner, il terzo romanzo di John Williams (1922-1994), pubblicato quest’anno per la prima volta in Italia da Fazi.

Uscito originariamente nel 1965 e ristampato solo a metà degli anni 2000 dalla New York Review of Books, è un racconto lungo una vita che ha l’incedere lento di una diligenza che attraversa la Monument Valley senza accorgersi quasi mai del sole che scalda la terra e del cielo che incombe, un affresco levigato e struggente di un antieroe americano e una riflessione amara sulle occasioni, sugli errori, sul senso profondo di un’esistenza vissuta come sopportazione. Scritto con un linguaggio preciso, dolcissimo e sapiente, Stoner ha la levatura di un grande classico della letteratura americana, si pone accanto ai capolavori imperituri di gente come Steinbeck, Faulkner e Dos Passos.

Per quale ragione sia rimasto sepolto e dimenticato per così tanti anni è un mistero la cui soluzione si può forse intravedere in una frase che a un certo punto pronuncia uno dei personaggi del libro: “Ci sono guerre, sconfitte e vittorie della razza umana che non sono di natura militare e non vengono registrate negli annali della storia”. Quelle guerre, quelle sconfitte e vittorie, sono nella vita di ognuno di noi, e forse solo la buona letteratura riesce a convincerci di tanto in tanto che possano essere perfino interessanti.

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