Sapeva già quattro lingue appena nato, e il futuro gli sarebbe stato indicato dal nonno: un giorno tutto quello sarà tuo. Zuccherifici, petrolio, giornali. Restarono solo i giornali, oltre ai tanti miliardi in banca. E due stili e percorsi diversi, incrociati solo nella sete di potere affermato attraverso la carta stampata, mitragliatori che intimorivano, talvolta intimoriscono ancora, solo a guardarli. Anche, se fosse stato il caso, a scapito della corretta informazione.

Quella che segue è una storia come tante ce ne sono state in questo Paese. I protagonisti sono dettati dal fattore cronaca. Uno, il fondatore del sistema potere, si chiamava Attilio Monti, e con la carta il potere lo dirigeva. L’erede è Andrea, l’attuale proprietario della Poligrafici editoriale, fresco di aver mandato al macero due direttori sgraditi al Monte dei Paschi, fattore che ci fa propendere all’ipotesi che il potere, rosso o nero, lo subisca. Poco cambia. A rimetterci sono prima di tutto tre grandi giornali, La Nazione, Il Resto del Carlino, e Il Giorno, fatti da eccellenti colleghi, ma che non sempre, negli ultimi anni, hanno avuto direttori all’altezza del nome della testata che portavano in giro. In questo soprattutto Andrea ha mutato a cospetto del nonno: il direttore lo vuol fare lui, sempre e comunque. Una notte di qualche anno fa scese in tipografia e fece cambiare il titolo in prima pagina. C’era stato appena un fatto di sangue, il corpo di un bambina di 9 anni, che si chiamava Sara Jay ed era è finita in una cantina, nascosta dietro un vecchio armadio, come un mucchio di stracci. La sua volontà fu quella di stampare in prima pagina: Pena di morte sì, sì, sì.

Uno stile diverso dal nonno, Attilio, prima petroliere, poi editore a tempo pieno, morto pochi anni dopo il tentativo di scalare il Corriere della sera. Amici e detrattori lo chiamavano cavalier Artiglio, ma sempre sottovoce, perché non si sapeva come sarebbe andata a finire. Romagnolo fumante, alto, snello, non aveva né peli sulla lingua né si faceva tanti problemi a macinare (anche lui) direttori dei suoi giornali di allora, Il Resto del Carlino a Bologna, La Nazione a Firenze, Il Telegrafo a Livorno. Lui Artiglio, sceglieva direttori che avrebbero comandato la nave. Se poi cambiavano rotta al limite della sopportazione li metteva alla porta. Ne sa qualcosa l’Enzo Biagi, direttore del Carlino: durò poco meno di un anno. Ed era già Enzo Biagi. Però colpevole di strizzare l’occhio a sinistra, con quelle interviste a Giancarlo Pajetta, Renato Zangheri e a quelli che erano i mammasantissima del Partito comunista. E lui, che era stato fascista, poi democristiano fino alla Dc di Bisaglia e Rumor e al Msi di Rauti, a tutti finanziava le campagne elettorali, ma dei comunisti non voleva sentir parlare. Biagi tornò in Rai. Più o meno lo scotto pagato da un altro maestro di giornalismo, Gianfranco Piazzesi, che alla Nazione durò un anno e un mese.

Artiglio non si faceva scrupoli, perché ai giornali era arrivato con un preciso compiti: aiutare le attività più remunerative, come quella dell’Eridania e della Sarom, l’azienda di petrolio, le casseforti al centro dell’impero. La sua idea di editore, come racconta in un memorabile articolo Giampaolo Pansa, era che i giornali avessero un utile occulto: “I giornali, dunque, saranno un’ arma di difesa e d’ attacco e, se del caso, merce di scambio”.

Ma l’uomo, figlio di un fabbro, se era arrivato a costruire un impero che allora valeva qualche centinaio di miliardi, riusciva anche a spiazzare i più temibili avversari. Si era comprato i giornali per blindare gli affari, vero, ma quando deve scegliere un direttore per La Nazione punta su Domenico Bartoli, un signor professionista che aveva già capito tutto in tempi non sospetti e scriveva su Epoca una cinquantina d’anni fa: “La cosa peggiore che possa capitare, e che purtroppo capita, è l’ equivoca combinazione affari-giornalismo-politica. È un ménage à trois nel quale l’ affarismo fa la parte di un uomo che vende i favori della moglie (il giornale) a una terza persona (la politica) per un certo prezzo”.

Capito Artiglio? Faccio quello che fan tutti, ma con garbo. Una dote, anche questa. Magari non delle più apprezzabili. Il guaio che anche Artiglio, ormai a fine corsa, incappò nella crisi petrolifera e riuscì a malapena a blindare i giornali e vendere tutto il resto, incluse e raffinerie e i debiti all’Eni. I giornali gli impacchettò e consegnò nelle mani del nipote, Andrea Riffeser che al suo cognome aggiunse anche Monti, quello di cotanto nonno.

Artiglio non amava i giornalisti (lo schiaffo peggiore lo prese quando chiuse Il Telegrafo dalla sera alla mattina, ma con i giornalisti che si costituirono in cooperativa e gli portarono via milioni di lire oltre a non far mancare dalle edicole il giornale per neppure un giorno) così come non li ha mai amati il nipote Andrea, al quale però – a differenza del nonno – gli sarebbe piaciuto fare il giornalista. Editore, ma con la volontà di confezionare i giornali. Lo ha fatto bene in questi anni. I giornali sono cresciuti, a Carlino e Nazione ha unito anche il Giorno, e ne ha fatto una potenza e radicato la presenza sul territorio. Sarebbe stato un ottimo direttore, probabilmente. Alcuni lampi di genio – lasciamo perdere il titolo sulla pena di morte – ha dimostrato di averli. Ma se ha fatto quadrare i conti, non è stato abile nell’insegnamento del nonno: usare i giornali per addomesticare il potere.

Ci provò qualche anno fa affidando a Vittorio Feltri la direzione dei suoi giornali. Contratto da un milione di euro all’anno, garanzie, promesse. Ma anche Feltri venne costretto alle dimissioni una mattina che, aprendo il giornale, non trova più il titolo che aveva licenziato prima di andarsene a casa. Lo ha cambiato l’editore. Feltri, il giorno stesso, tornò a Milano.

Quello che ha calcolato male Andrea nella sua idea di essere editore sono i giornalisti, la spina dorsale del prodotto. Così oggi, dopo l’ennesimo direttore mandato via perché non gradito al Monte dei Paschi, tempio della finanza rossa (il nonno non la prenderebbe bene), i giornalisti hanno scioperato. E hanno scritto un comunicato di fuoco contro il loro editore. Una dichiarazione di guerra. Per ribadire un concetto: siamo un grande giornale, in mano a un piccolo editore. Che si ostina a usare i giornali a scopo personale, sempre appresso a quell’utile occulto di cui parlava il cavalier Artiglio.

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