Ho visto “Diaz” con mia figlia. Carolina aveva vent’anni, allora, e come molti scampò al massacro per caso, così come per caso tanti altri ragazzi lo subirono.

Alla Diaz aveva depositato il suo zaino quella mattina, dopo aver lasciato il Carlini (lo stadio), considerato poco sicuro perché a rischio sgombero.

Per fortuna decise di non passare lì la notte e verso sera prese le sue cose e tornò a Milano.

Per una buona parte del film mia figlia ha pianto. Mi stringeva la mano e piangeva mentre assisteva ai pestaggi, alle umiliazioni, insomma alla ricostruzione fedele della barbarie perpetrata quella notte a Genova.

Dopo, mi ha raccontato quel che ricordava del luogo: il centro stampa con i computer, i suoi amici videomaker che montavano le immagini raccolte il giorno prima. L’allegra confusione di un campeggio al coperto. Nulla che potesse far presagire quanto sarebbe successo.

Avevo letto il libro di Alessandro Mantovani dal quale è tratto il film (“Diaz – Processo alla polizia”, Fandango) e l’avevo trovato importante: un documento imprescindibile per chi avesse voluto sapere che cosa era accaduto davvero a Genova quella notte. Ne avevo anche scritto per Il Fatto in occasione del decennale del G8, l’anno scorso.

Il film è altrettanto importante. Bellissimo. Scioccante. Vero. Basato, come il libro, sugli atti processuali. Inattaccabile.

E, per favore, non venitemi a dire che nel film non si parla di Scajola e di Fini, o che l’altra barbarie, quella di Bolzaneto, è trattata solo di striscio (ma con che forza!) . “Diaz” racconta una parte di quel G8, e la racconta bene, in modo oggettivo. E scusate se è poco.

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