La storia raccontata da Diaz di Daniele Vicari si compone a poco a poco, per frammenti, ritorni, espansioni. E’ il film non visto del G8 di Genova, il suo drammatico backstage di violenza. E come tutti i backstage disegna più l’affollata varietà della scena che non la sua artificiale linearità. C’è la violenza della polizia che tradisce la sua missione di tutrice della legalità, ma c’è anche il dubbio di qualche poliziotto, e c’è il caos degli scontri.

Nei backstage entrano anche elementi spuri: errori, momenti di relax sul set, maestranze al lavoro, ecc. I backstage sono il regno del contrasto, perché mostrano al tempo stesso il lato A e il lato B delle cose, il film di cui essi raccontano la fabbrica, ma anche ciò che gli ruota intorno, la macchina-cinema: in un certo senso i backstage danno un corpo ai titoli di coda del film. I backstage non devono dimostrare nulla, piuttosto devono mostrare, spesso in maniera divertente e divertita, un clima, una situazione.

Il film di Vicari non è un film a tesi, non vuole dimostrare, vuole solo mostrare, come avrebbe detto Jacques Rivette (che usava questa formula a proposito di Rossellini): Diaz riporta l’immagine alla sua crudezza. Don’t clean up this blood, recita il titolo del film. Il sangue non deve essere pulito, perché l’immagine del sangue schiantato sui pavimenti e sulle pareti della scuola Diaz, teatro dell’animalità scatenata della polizia contiene di per sé già tutto: tutto il dolore, tutta la violenza, tutta l’insensatezza delle cose che accadono.

Non voler chiudere il film su una tesi non significa non avere un’opinione. Significa semmai porre il problema della verità in tutta la sua complessità. Che cos’è la verità delle immagini? E’ quella dei telegiornali che al tempo del G8 ci inondarono gli occhi con le gesta terribili dei black-bloc? Oppure è una continua domanda, un continuo differimento delle cose, una ricerca perpetua che non si acquieta mai? E come si declina la verità al cinema? La si declina nel modo assertivo che è tipico della televisione (e che un tempo era tipico dei cinegiornali) oppure nel modo interrogativo che dà forza all’immagine anziché depotenziarla?

Un grande indagatore della verità come Cesare Zavattini (peraltro regista di un unico film, intitolato non a caso La veritàaa) diceva che la verità non esiste perché esiste solo la volontà di cercarla, e che non c’è da chiedere scusa a nessuno se si dice la verità. Ma dire la verità sarebbe chiudere la pluralità delle cose in un ritratto fisso, mentre la verità per esistere non deve essere detta. La verità è quello che si ha paura di dire, diceva ancora Zavattini.

Ecco, la tv spesso vuole “dirci la verità”, vuole mettere le cose dentro un senso unico, laddove invece il film di Vicari rispetta la domanda di senso delle cose, pur avendo ed esibendo un proprio chiaro punto di vista. Gli sguardi sbigottiti dei personaggi, in Diaz, sono spesso nodi di sentimenti, e fungono più da specchio dell’incomprensibilità di ciò che li circonda che non da rivelatore di una singola emozione. Sembrano gli sguardi spaesati e in cerca di senso di certi bambini dei film di Rossellini, l’Edmund di Germania anno zero o lo scugnizzo napoletano di Paisà. Sguardi incapaci di posarsi su un oggetto, perché tutti gli oggetti visivi che incontrano sono troppo devastanti per essere sorretti da uno sguardo. C’è più verità in uno sguardo che cerca il suo oggetto che in mille immagini dimostrative.

E Diaz si chiude quando uno sguardo trova in un altro sguardo un luogo che lo accolga.

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