Non è solo una questione di orgoglio nazionale. Ci sono forti interessi economici dietro il braccio di ferro per il controllo della petrolifera Ypf che ha fatto precipitare Madrid e Buenos Aires sull’orlo di una crisi diplomatica dalle conseguenze imprevedibili. La presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner minaccia di nazionalizzare la compagnia, attualmente in mano (per il 57 per cento) all’iberica Repsol. Ma il governo di Mariano Rajoy non ci sta: prima il ministro dell’Industria Soria prospetta ritorsioni, poi la vice-premier Saenz de Santamaría ringhia che “la Spagna difenderà i propri interessi con tutti gli strumenti a sua disposizione”. Infine, in un crescendo dai toni sempre più apertamente bellici, il capo della diplomazia García Margallo assicura che l’esproprio sarebbe considerato da Madrid come “un atto d’aggressione”. Possibile conseguenza: una “rottura dei rapporti non solo economica”, che minerebbe alla base “la relazione fraterna” esistente tra i due paesi.

Sono davvero lontani i tempi in cui l’Argentina – pur fingendo insofferenza per rivendicare in qualche modo l’orgoglio patrio – accettava con entusiasmo la nuova ondata di colonialismo economico proveniente dall’ex “madrepatria”. Le privatizzazioni di Carlos Menem si trasformarono in una svendita a prezzi di realizzo. Affari d’oro per Telefónica, le grandi banche Santander e Bbva, e persino il fragile Grupo Marsans, che prese il controllo di Aerolineas Argentinas finendo per aggravarne la crisi. Tutto il contrario di Repsol, che sbarcò a Buenos Aires nel 1999 con intenzioni più che serie. Investì 13 miliardi e mezzo di euro, comprando prima il 15 per cento di Ypf, e in seguito lanciando un’Opa. Questo consentì alla compagnia di diventare in poco tempo l’ottavo produttore di greggio nel mondo e la quindicesima compagnia energetica.

Il problema è che, per gli argentini, Ypf è da sempre uno dei simboli nazionali irrinunciabili. Lo capì subito Antonio Brufau quando – nel 2004 – fu nominato alla guida di Repsol. Favorì l’apertura a soci locali, con la cessione del 25 per cento delle azioni al gruppo Petersen. Ma non è bastato per evitare la recente, drammatica resa dei conti. Buenos Aires accusa gli spagnoli di non aver investito a sufficienza nella compagnia, e attribuisce al “mancato rispetto dei piani di produzione” il deficit di idrocarburi in Argentina che obbliga il paese ad aumentare le importazioni. Repsol replica di aver realizzato 20 miliardi di dollari di investimenti in dodici anni (3266 milioni solo nel 2011). Ma forse il vero problema è un altro. L’annuncio, un anno fa, della scoperta di un enorme giacimento di petrolio e gas nella zona della Vaca Muerta, nelle province di Neuquén e Mendoza, potrebbe aver indotto il governo a valutare la convenienza di gestire in proprio un business così succulento.

Sullo sfondo, c’è la prospettiva di triplicare le riserve del paese e garantirne in futuro l’autosufficienza energetica. Poco importa che sia stata la tecnologia spagnola ad aprire questo spiraglio di speranza. La bozza di legge per l’esproprio di Ypf è già pronta. Se non è stata ancora presentata, si deve probabilmente alle fortissime pressioni che Kirchner ha ricevuto nelle ultime ore. Di sicuro dal presidente della Commissione Ue Durão Barroso. Ma non solo. Madrid ha chiesto aiuto al Dipartimento di Stato Usa e al governo messicano (presidente di turno del G20). E mentre, nel trentennale del conflitto delle Malvine, paventa oscure “ritorsioni”, cerca di esercitare nei confronti dell’Argentina anche un estremo ricatto morale: ricordando di quando, ai tempi del “corralito”, Aznar corse in soccorso di un paese in bancarotta con un credito da un miliardo di dollari.

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