Se a distanza di quasi un anno dalla sua data di pubblicazione un libro continua a far parlare di sé, se quello stesso libro ti fa sentire l’urgenza di discuterne in pubblico e con i tuoi amici, se ti fa venire voglia di rintracciare all’interno delle sue pagine le assonanze misteriose che lo legano ad altri libri che hai letto in passato, se alla fine ti senti segretamente legato a quel libro come a un amico con cui hai condiviso qualcosa di fondamentale, è evidente che sei incappato in un’opera importante. Sto parlando di un romanzo italiano, Il nome giusto (Ponte alle Grazie), opera prima di Sergio Garufi.

È il romanzo di un invisibile – di questo, in fondo, si tratta – di un uomo morto, sfracellato sull’asfalto della circonvallazione Trionfale, a Roma, di uno spirito che segue in disparte il destino dei libri che gli sono appartenuti in vita, e che sua sorella si è affrettata a vendere in blocco, dopo la morte, a Lino, uno che ha una libreria dell’usato. “Ero legato ai miei libri, è con loro che starò fino alla fine”. Ne spia gli acquirenti, ne misura il grado di affidabilità, li pedina come un padre che scruta in segreto i movimenti dei figli lontano da casa.

Il vagabondare di questo angelo secolare in una Roma estranea e sospesa si intreccia con il ricordo di una vita, l’infanzia alla Edilnord di Milano, i feroci traumi familiari, il fallimento di un’impresa commerciale, gli amori, l’arte, la letteratura (Borges, Céline, Kafka, Leopardi, Wallace) da cui è attratto e alla quale vorrebbe dedicarsi in prima persona, come autore, pur mantenendo per lungo tempo un atteggiamento di riserbo, quasi di pudore (“A volte mi portavo un taccuino, trascrivevo brandelli di conversazione, facevo il bracconiere di parole. Mi sembrava che in quel punto privilegiato la vita opponesse meno resistenza a tradursi in scrittura”). Insomma, un post-vita in cui è completamente assente il senso dell’eternità, e in cui l’infinito è il passato, ciò che la vita è stato con i suoi affluenti di circostanze, di fatti, di persone.

Perché ho amato questo libro? Perché parla della solitudine, del chiodo della colpa, delle enormi tasche in cui stipiamo la vita, perché è scritto con una prosa misurata eppure ricchissima, e nelle sue imperfezioni da mémoire risulta efferatamente sincero. Ma soprattutto perché con la forza di un veggente mi ha parlato di questo: di quando il fumo si dissipa e gli scenari della vita ci appaiono ridotti in tizzoni, e le persone che abbiamo amato e odiato coperte di nerofumo, eppure bellissime, per quanto, ormai, irraggiungibili.

Articolo Precedente

Biblioteca dei Girolamini, Ornaghi ci ripensi

next
Articolo Successivo

Le lezioni in inglese che ci rendono meno colti

next