Lo si vociferava dallo scorso agosto: Zuckerberg col cursore puntato su una nuova funzione fotografica, quella dei filtri per Facebook. Poi, nei giorni passati, la notizia: il social network a sfondo blu – il più grande sito di stoccaggio fotografico al mondo, con una media di 250 milioni di immagini caricate ogni giorno – ha  acquistato la app col logo della Polaroid One Step Rainbow, Instagram.

Surclassato qualitativamente dai cinguettii piccati del canarino Twitter, Facebook ha scelto di farsi amico l’altro nemico. Scucendo un miliardo di verdoni per ridimensionare virtualmente una minaccia realissima sul terreno comune del social networking, Instagram, definita da qualcuno “la migliore esperienza fotografica sul mercato”.

Creata da Kevin Systrom e Mike Krieger nel marzo del 2010, già amatissima, caldamente iconica, vintage e mai nostalgica, Instagram è la più famosa applicazione di photo-sharing via mobile, con una base di circa 33 milioni di utenti (di cui un milione subentrato la scorsa settimana, nelle sole 12 ore seguenti l’implementazione su Android) ed il punto di forza del Geotag (che attinge da applicazioni come Foursquare per l’elenco dei locali): si scatta, lo si spunta, e l’immagine compare, sul social, registrando il luogo in cui è stata fatta.

Una pratica, quella del location-based, che il buon Mark ha fatto sua, la scorsa estate, introducendo  il “Facebook Places”, cioè la condivisione della propria posizione, poi divenuta un’opzione di aggiunta del luogo agli aggiornamenti di stato o di immagine, e che molte altre piattaforme sono sul punto di introdurre: la logica è quella di assecondare l’ossessione, illogica, dell’“ehi, dico a voi, guardate tutti dove mi trovo!”; la dinamica, più tecnicamente, è quella proficua per le società operanti dietro queste reti sociali, le quali, localizzando la posizione del potenziale acquirente, possono così elaborare un maggior numero di offerte locali ed annunci mirati.

Tanto facilmente geotaggabili, le foto su Instagram, da sollevare, in passato, numerose proteste (a molti utenti è capitato, infatti, e goffamente, di fare del Geotag un uso accidentale), costringendo la piccola Società, lo scorso maggio, a rilasciare una versione aggiornata dell’app, più intuitiva nell’utilizzo.

Sono quasi aneddoti fotografici, quelli di Instagram, cartoline d’oggi col sapore di ieri, polaroid glamour che ti dicono chi è dove, chi ama cosa, chi è con chi, facendo apparire tutto invecchiato eppure nuovissimo, patinato, dal seppia al bianco-nero, attraverso una galleria di 18 filtri oltremodo noti (Hudson, X-pro II, Sierra, Earlybird, Brannan, Nashville e Kelvin, fra gli altri), ma che, non fossero mappabili, ne perderebbero.

E ora, mentre è in corso l’onerosa compravendita, con un Zuckerberg promettente, almeno per il momento, di lasciare a Instagram tutto l’ossigeno e l’autonomia di cui necessita – “per fare bene, dobbiamo essere consapevoli di come mantenere e rafforzare i punti di forza di Instagram e le sue caratteristiche, anziché integrare tutto su Facebook”, ha dichiarato l’inventore della società che pianifica il debutto in Borsa sul Nasdaq – ci si chiede cosa ne sarà, della app con la mini polaroid che ha spopolato, curiosa coincidenza temporale, proprio nell’anno del fallimento di Kodak. Brand scaccia brand.

Col rischio, prefigurato da analisti e tech blogger, che il check-ins, da tasto attivabile, diventi una funzione automatica – dove siete e di fronte a quali opere, geolocalizzati sempre – e la preoccupazione internauta sul destino delle proprie foto (come cambia, se cambia, il copyright?). Oltre alla possibilità che l’operazione non si riveli un arricchimento, bensì una depauperazione, per Instagram, come successe a Flickr comprato da Yahoo!, “Business as usual”, ha rassicurato Kevin Systrom, Amministratore Delegato della app fotografica (il quale intascherà 400 milioni di dollari; lo stesso uomo che, nel 2004, per non abbandonare gli studi a Stanford, aveva ricevuto e rifiutato un’offerta da Zuckerberg in persona, a prender parte al team del suo sito): “sia chiaro, Instagram non sta andando via: lavoreremo con Facebook per evolverlo e costruire la rete, aggiungendo nuove funzionalità, e trovando modi per creare la migliore esperienza mobile possibile”.

Comunque vada, quale che sia il destino “sociale” di questa graticola di programmi sempre più fluidi, sempre più formicolanti, ci si ricorderà certo di questo aprile 2012 in cui un nanuncolo di appena 551 giorni, Instagram, con la sua dozzina scarna di dipendenti e il suo profilo di startup prodigiosa,  è stato pagato e prelevato per un miliardo di bigliettoni, scavalcando un colosso quotato 967 milioni di dollari e vecchio ben 116 anni come il New York Times.

Che è un po’ come pensare che un posacenere sozzo, se ripreso effettato, con la giusta angolazione, le luci ad hoc, una bella cornice, possa interessare più che un caso di cronaca, o un cesso scrostato risultare più cool di una carriera politica. Ci credete? Cheese.

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