Guardo quelle lacrime sul viso che irrorano, o almeno ci provano, le espressioni solitamente rancorose della Lega travolta dagli scandali, e mi sembra di vederci un che di grottesco. Nelle immagini di Bossi e di Rosy Mauro che piangono e si commuovono in tv – l’uno per chiedere scusa (chiedere scusa!) ai suoi per aver infilato in un modo o in un altro i figli nella vicenda politica della Lega, l’altra per dichiarare il suo diniego a dimettersi dalla vicepresidenza del Senato – c’è qualcosa che ha a che fare con il teatro.

Queste lacrime sembrano richiamare degli archetipi, tipo il finto sciocco o il superbo: le une, quelle di Bossi, dovrebbero essere lacrime di pentimento, le altre, quelle della Mauro, lacrime di sofferenza, ma di una sofferenza un po’ arrogante. Eppure queste lacrime televisive sono insopportabili, come tutte le lacrime che ci rimanda la tv del dolore, o quella fintamente buonista (il vecchio Portobello fece scuola più di trent’anni fa). Sono lacrime che non bagnano, asciutte, disseccate.

Per reazione vado a cercare su Youtube lacrime ben altrimenti liquide, forse le più belle lacrime dell’intera storia del cinema. Sono le lacrime di Anna Karina, alias Nanà, nel film di Godard Questa è la mia vita. Lacrime versate guardando altre lacrime, quelle della indomita Giovanna nella Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, splendido film muto del 1927.

Trentacinque anni dopo la grande prova di Dreyer (il film di Godard è del 1962), Nanà si infila in un cinema per vedere quel film-culto e partecipa al calvario di Giovanna: anche lei, giovane prostituta ridotta così da una vita che la mette ai margini e la stritola, vive il suo calvario, anche lei corre verso la morte e potrebbe dire, come Giovanna, “Noi capiamo la strada solo alla fine del nostro cammino”. Tra quelle due donne, riprese entrambe con dei primissimi piani che sembrano unirle anche fisicamente l’una all’altra e quasi intrecciarle, le lacrime segnano il momento più alto della compassione, della com-passione.

Le lacrime dei leghisti sono invece mute, prive di ogni com-passione, autoreferenziali: sono lacrime che si ripiegano su se stesse, senza offrirsi all’altro in un gesto di generosa condivisione. Sembrano le lacrime impossibili di moribonde maschere della politica.

In un articolo diventato celebre come “l’articolo delle lucciole”, Pasolini scriveva (nel 1975) che certi politici democristiani sembravano non essersi accorti di alcuni cambiamenti radicali intervenuti nella società italiana del post-boom. Cambiamenti che egli riassumeva con l’immagine poetica della scomparsa delle lucciole dall’orizzonte visivo quotidiano, sia urbano che rurale. Poiché non si erano accorti di nulla, quei politici continuavano ad agire e ad apparire come se nulla fosse successo: erano maschere che, a sollevarle, avrebbero rivelato il vuoto. Nemmeno le ossa si sarebbero trovate sotto le maschere. Il fatto è – concludeva Pasolini – che per capire i cambiamenti della gente bisogna amarla. Cioè, potremmo aggiungere, bisogna avere com-passione. Di com-passione Pasolini morì pochi mesi dopo quell’articolo.

La crisi della politica, che ora si rivela plasticamente nelle lacrime disidratate di Bossi e compagni, è una crisi di com-passione. Se qualcuno sapesse di nuovo appassionarsi come certi politici d’antan (uno per tutti: il Berlinguer che solleva la questione morale e ne fa una bandiera della diversità del suo partito), le lacrime sarebbero un’occasione di comunione, il luogo in cui sarebbe possibile ritrovare “simpatia”, esattamente come accadde ai funerali di Berlinguer, forse l’ultimo grande momento in cui la liturgia fu sopraffatta dalla commozione. Dov’è finita la gente che piangeva a quei funerali?

Vorrei poter piangere guardandomi intorno, come faccio ogni volta che vedo le lacrime di Nanà insieme a quelle di Giovanna.

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