Chi di noi non ha un paio di jeans schiariti, morbidi e consumati? Chi di noi sa come viene ottenuto questo effetto? Nella maggioranza dei casi il capo è sottoposto a un getto di polveri abrasive ad alta pressione, il cosiddetto metodo della sabbiatura.

Questa è la moda: piace così!

Il problema però è che questa moda ha conseguenze gravi sulla salute, perché la sabbiatura può provocare la silicosi, una malattia polmonare dovuta all’inalazione prolungata di queste polveri.

Dopo una forte campagna di denuncia da parte della Campagna Abiti Puliti e delle organizzazioni sindacali, sono stati fatti importanti passi avanti per porre fine a questa pratica: nel 2009 la Turchia –dove per la prima volta è stato dato l’allarme sulla pericolosità di questo trattamento e dove sono stati registrati 52 decessi per silicosi e 1.200 casi di malattia conclamata – ha imposto il divieto all’uso della sabbiatura e in Europa il tenore in silice della sabbia non può superare l’1%.

Ha ragione Deborah Lucchetti, la portavoce italiana della Campagna, quando afferma che “La situazione è molto grave”, perché l’industria della sabbiatura non si è fermata e, dopo il divieto turco, si è spostata in altri paesi, come Cina, India, Bangladesh, Pakistan. Come confermato dall’ultimo rapporto della Campagna Abiti Puliti, molte aziende, alcune delle quali avevano annunciato l’interruzione della pratica della sabbiatura, continuano a farne uso.  Dalla ricerca, effettuata in sette fabbriche bengalesi, in cui sono stati intervistati settantatrè lavoratori, di cui oltre la metà addetti alla sabbiatura, emerge che in gran parte degli stabilimenti la sabbiatura non è stata definitivamente abolita, qualunque siano state le istruzioni dei committenti, e spesso è eseguita di notte in modo da non dare nell’occhio.

Ci si trova dunque nella posizione di dover decidere tra le esigenze della moda e quelle della vita di migliaia di lavoratori. Il punto vero però sta nel comportamento delle imprese. Perché  le aziende, quelle che producono jeans come tutte le altre, non sono obbligate a dare risposte documentate alla società civile che chiede spiegazioni. Chi ha visto il servizio delle Iene non si sarà stupido alle mancate risposte di aziende come Dolce & Gabbana.

La domanda è: può un’impresa multinazionale non rispondere su temi così delicati?

Formalmente è così, non c’è un vincolo di risposta, per cui le associazioni chiedono, scrivono, mobilitano migliaia di persone per firmare petizioni e spesso le aziende fanno finta di nulla o rispondono attraverso il loro Ufficio legale o, peggio ancora, con querele.

Certo, molte di loro sostengono di non violare la legge, ed effettivamente è così, almeno fino a un certo punto: perché se sposti la produzione da un paese dove la legge è restrittiva –ad esempio la Turchia- a un paese dove puoi fare quello che ti pare – ad esempio il Bangladesh-, la legge non la violi, ma stai facendo una furbata.

Poi, per fortuna, ci sono casi virtuosi, come Gucci, l’unica azienda ad aver collaborato con le organizzazioni sindacali e con le associazioni, per sottoporre a valutazione il ciclo di sabbiatura all’interno della sua filiera. I jeans firmati Gucci sono dunque prodotti interamente in Italia.

Il legislatore notoriamente è ritardatario e ci metterà un po’ di tempo prima di vietare questa pratica o, nel caso dell’Europa, prima di vietare l’importazione di questi capi.

Nel frattempo però le aziende devono fare la loro parte: non pretendendo tempi di consegna brevi e bassi costi (che incoraggiano l’uso della sabbiatura manuale), andando a monitorare se i loro fornitori rispettano le loro indicazioni e, magari, utilizzando tecnologie diverse –che esistono- per trattare il jeans.

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