Leggo con interesse il vespaio suscitato dal mio pezzo su Hirst. Ringrazio tutti per la puntualità delle osservazioni e mi scuso per la grave imprecisione che mi è stata segnalata sul libro di Thompson. Sono felice di aver dato il via a una conversazione interessante e anche di aver anticipato una polemica che l’altro ieri è uscita sui giornali, con articoli approfonditi e circostanziati di esperti d’arte pro e contro Damien Hirst.

Cercherò di rispondere alle critiche e ignorerò invece gli attacchi personali, meno interessanti e segno di quella rabbia di cui parla Guimaraes Rosa nel pezzo che ho a lui dedicato.

Interessante notare come si metta sullo stesso piano la rivoluzione attuata da Duchamp e da Picasso con il teschio di Damien Hirst.

Altrettanto interessante notare come si attribuisca a una mia ignoranza il giudizio su Hirst e interessante è anche il fatto che per parlare di arte bisogna oggi essere laureati in Storia dell’arte e infine che per capire delle opere artistiche è necessario aver studiato. Non essere un’esperta d’arte mi mette nella piacevole condizione di mettermi di fronte alle opere artistiche con innocenza e provare a capire quello che l’artista ha cercato tenacemente di esprimere; quindi cerco di documentarmi, nel modo in cui è possibile a noi comuni mortali. Mi giudico una vera conoscitrice di opere artistiche, semplicemente perché le guardo con passione; posso fare il catalogo come fa qualcuno dei commentatori e Don Giovanni con le sue donne.
Trovo rivoluzionari e sinceri i tagli di Fontana, apprezzo la provocatorietà dolorosa di Francis Bacon e sono atterrita dai quadri di Lucien Freud. Mi incanta la scultura di Moore, di Velasco e quella atroce di Demetz ma anche quella di Rodin. Se fossi ricca e in possesso di una grandissima casa mi comprerei arte concettuale (qualcuno forse vorrà precisare nella sua forma di “arte povera”) di Pino Pascali e soprattutto il molto ironico Primopianolabbra (siamo negli anni Sessanta) che non ha bisogno di essere spiegata, e un mucchio di opere di De Dominicis. Mentre avrei bisogno di qualcuno che mi spieghi cosa significa la testa di mucca, i puntini o le farfalle o il corpo del povero squalo custoditi alla Tate. Mi diverto davanti a Pistoletto; la Beecroft vista a Venezia tempo fa insieme alle teste di cammello immerse nella laguna di Not Vidal e al papa di Cattelan le ho trovate ingegnose ma un poco manieriste, già nell’aria.

Invece mi piace la nitidezza dei video di Bill Viola e il teatro di Alessandro Bergonzoni. Vorrei che ciascuno potesse liberamente apprezzare e parlare di arte senza paura di essere etichettato come incolto o ignorante, così come si parla liberamente di un piatto cucinato o di un romanzo.

Questa sono io; sì lo ammetto, imprecisa, ma libera.

Comunque la cosa più interessante è che colui che ha osato criticare Hirst, il pericoloso Julian Spalding, non sia stato ammesso alla conferenza stampa di apertura della mostra di Hirst alla Tate Gallery. Non è stato fatto entrare ma gentilmente invitato ad andarsene come persona non gradita. Deve aver toccato qualcosa di veramente profondo per obbligare i democratici inglesi ad escluderlo dalla conferenza stampa. Deve aver fatto paura. Mi piace essere in compagnia del suo coraggio più serio e meno superficiale del mio. In un’intervista pubblicata l’altro ieri su La Repubblica Spalding, indignato per essere stato cacciato, conclude:
…Dietro (le mostre di Hirst) c’è un’enorme operazione di marketing. Quando ha capito di non essere più un artista, Hirst si è presentato da Charles Saatchi che a sua volta dice di essere un collezionista ma in realtà è un commerciante che vende e compra arte. Saatchi ha deciso che le opere di Hirst si potevano vendere perché creavano shock. Ma lo shock non è che una tattica per far sospendere il tuo giudizio. Gli artisti possono sorprendere, ma è diverso dallo scioccare (…)”.

Scioccare è a mio avviso compito della pubblicità. E a proposito di pubblicitari, se qualcuno ricorda, Saatchi è stato qualche mese fa indicato come il complice o la vittima di una gigantesca truffa in cui una sedicente collezionista messicana immetteva sul mercato tramite la galleria londinese opere false di Pollock.

Per concludere: credo che le parole siano elementi delicati. Nati per definire e circoscrivere. Se viene meno questo loro compito, perdono di senso. Se tutto è arte, perché nessuno può più dire che qualcosa non lo è, allora l’arte non esiste più.

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