In un momento nel quale la disoccupazione giovanile in Italia è su livelli altissimi (oltre il 30 per cento) è importante ragionare su quale sia una giusta attitudine verso il lavoro. Si è chiusa da tempo la fase nella quale in Italia c’erano grandi imprese e grandi istituzioni che offrivano posti di lavoro stabili e che assicuravano una carriera per tutta la vita. Lo scenario è cambiato in tutto il mondo e in Italia ancora di più.

Ci sono rimaste pochissime grandi imprese. Il 95 per cento delle imprese italiane infatti ha meno di 10 dipendenti. E il settore pubblico non è più in grado di offrire posti di lavoro a tempo indeterminato, se non in misura molto ridotta. La precarietà anzi è molto più diffusa (in proporzione) nel settore pubblico che non nel settore privato. Del resto con un debito pubblico gigantesco come quello italiano come si potrebbe pensare a uno sviluppo dell’occupazione nel pubblico impiego?

A fronte di questo mutamento epocale allora i giovani dovrebbero scegliere molto accuratamente i percorsi di studio che vogliono intraprendere. E’ chiaro che alcune qualificazioni non hanno sbocchi lavorativi. Tutti lo sanno ma molti fanno finta di non saperlo. Non è facile tuttavia prevedere oggi quali possano essere le competenze più richieste tra dieci anni.  Forse più che le qualificazioni e le specializzazioni conta l’approccio al lavoro. Se nei prossimi anni ci saranno sempre meno posti di lavoro “stabili”, offerti da grandi strutture, diventa essenziale avere gli skills per inventarsi un lavoro. La nuova logica dovrebbe essere quella di pensare di diventare imprenditori e non solo “lavoratori dipendenti”. Da un atteggiamento passivo: cerco un lavoro per sistemarmi e poi tirare avanti si dovrebbe passare a una visione che sia attiva: in che modo posso capitalizzare sulle mie competenze? Come potrei trasformare il mio capitale umano in un’impresa?

Vi segnalo, su questi temi, un articolo di Irene Tinagli sulla Stampa di oggi “I giovani siano imprenditori di se stessi”.

Molti chiedono al governo di «creare posti di lavoro» secondo politiche industriali vecchio stile, quelle che tanti politici oggi invocano, a suon di sussidi e incentivi. Ma come si fa a programmare il futuro se è così incerto? Non c’è nessun motivo per il quale burocrati del ministero dello sviluppo economico sappiano oggi prevedere quali possano essere i settori del futuro. Sta agli imprenditori capirlo, attraverso tentativi ed errori.

Tinagli ci segnale che secondo gli studi della Kauffman Foundation, negli Stati Uniti, negli ultimi trent’anni la quasi totalità di nuovi posti di lavoro è stata generata da aziende nei loro primi anni di vita, aziende «nuove». Stimolare nuova imprenditorialità è una buona strada allora. E per farlo si tratta di ridurre i costi di fare impresa, attrarre e stimolare il capitale di rischio, investire in infrastrutture digitali e nuove tecnologie. Ma giustamente Tinagli ci dice che altrettanto importante è insegnare ai giovani ad essere creativi, curiosi, propensi al rischio, imprenditori.

“Tutti i sondaggi condotti tra i giovani italiani mostrano bassi livelli di propensione al rischio e all’imprenditoria. Anche se molti ragazzi hanno minori aspettative rispetto al posto fisso e anche se aumenta, per esempio, la disponibilità a viaggiare e spostarsi, tuttavia la voglia di fare impresa resta molto bassa. Uno dei sondaggi più recenti, condotto nel febbraio scorso da Termometropolitico in collaborazione con La Stampa su ottomila italiani sotto i trentacinque anni, ha fatto emergere come il 24% degli intervistati accetterebbe «qualsiasi lavoro, anche pagato male, basta che sia sicuro e a tempo indeterminato e senza alcun rischio». Per contro solo il 16% preferisce «fare sacrifici per qualche anno per mettere soldi da parte e iniziare una sua attività indipendente». Un dato sorprendentemente basso. Per fare un confronto, in un’indagine condotta dalla Gallup Organization assieme alla Fondazione «Operation Hope» e resa nota pochi giorni fa, il 77% dei giovani intervistati dichiara di voler essere «boss di se stesso», il 45% di voler fare la propria impresa, e il 42% si dice convinto che inventerà qualcosa che cambierà il mondo. Non solo, ma il 91% sostiene di non avere paura ad assumersi dei rischi, anche se possono portare a sbagliare e fallire, e l’85% dice di «non mollare mai» quando desidera raggiungere un obiettivo.”

Quando inizieremo ad insegnare economia e finanza nei Licei Classici?

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