Cultura

“Dalla parte del torto”, il nuovo lavoro di Giulio Casale

di Andrea Scanzi

Si arrabbierà, Giulio Casale, perché come tutti quelli che hanno amato troppo vive ora il riflusso (e forse l’eccessivo distacco), ma il suo nuovo disco è davvero “polemico e violento”. Proprio come Polli di allevamento, lo spettacolo di Giorgio Gaber che ha reinterpretato con meticolosa aderenza filologica.
Dopo aver letto troppe volte che somigliava al Signor G fin quasi a sembrarne il clone, Casale sembra ora volersi smarcare da quella filiazione così manifesta. Ha frequentato (e lo farà ancora) il teatro canzone parlando di Sessantotto e Nanda Pivano. La sua cover di Preghiera in gennaio bastava per dare la misura di un talento interpretativo quasi eccessivo. Come deliberatamente eccessiva, e spietatamente sincera, è l’urgenza che sottende ogni traccia di questo lavoro.

Programmatico a partire dal titolo, Dalla parte del torto: “Mi sono seduto dalla parte del torto/ perché ogni altro posto era occupato” (Mistificazione).
 Due citazioni in un corpo (e colpo) solo: il titolo dell’album rimanda a Claudio Lolli, la frase a Bertold Brecht. All’interno di una confezione scarna in bianco e nero – l’artista ascetico, barba lunga e aria “sciupata” che prova a deturpare un’avvenenza che gli sarà parsa fuoriluogo – Casale ha riportato poche righe che si concludono così: “Mi pare che siamo rimasti in pochissimi a credere nella canzone. L’album è dedicato a quei pochi. Dalla parte sbagliata”.
 La critica più facile è quella di una visione manichea e forse autoreferenziale, con l’autore che si proclama artista salvo in quanto schierato dalla parte del torto: ovvero del dubbio e della minoranza, del rischio e della omologazione irricevibile.

Di fatto Casale è davvero come si presenta e (si) canta: una sorta di ultimo cittadino libero di questa famosa città civile, e senza neanche un cannone nel cortile (per parafrasare un altro gigante che ha spesso lambito, Fabrizio De André). Le prime parole che incontri, all’interno delle 12 tracce, recitano: “Cantami la tua canzone/ e non fare sconti che non è stagione/ (..) Cantami ma non d’amore/ che non basta agli occhi quest’orrore”. Casale canta l’orrore (ma anche l’amore) e non fa sconti. Neanche a se stesso: la straordinaria Apritemi è così intima da mettere quasi in imbarazzo l’ascoltatore, troppo poco abituato alla sincerità fragile di chi non ha voglia né possibilità di nascondersi. Casale è uomo intriso di inquietudine, scrittore di prim’ordine. Intellettuale contrastato e animale da palcoscenico che non si concede neanche il tempo di dormire (dal 12 aprile di nuovo a teatro, il Litta di Milano, con lo spettacolo di prosa cantata La febbre), refrattario – più di quanto vorrebbe – all’idea di leggerezza. Litiga ogni giorno col suo presente (e con il suo paese). Capitava come leader degli Estra e ora più che mai, sospinto com’è da una violenta bulimia artistica. 
La produzione è di Giovanni Ferrario (Pj Harvey e non solo).

Suoni e chitarre sono nevrotiche, e necrotiche, come le storie narrate. Non tutto è pienamente risolto. La parte centrale patisce qualche flessione (Fine è un singolo che non funziona, Magic Shop una cover sbiadita). Poi però incontri Virus A (anche qui Casale si arrabbierà, ma la parentela con La peste di Gaber-Luporini è palese). E il trittico finale, Personaggio comune/ Senza direzione/ La febbre, in cui la forma canzone (meno oltraggiata del solito) raggiunge il suo massimo. 
Se fosse un voto, sarebbe 7+. Ma Dalla parte del torto non sarebbe mai un voto. E’ disco estremo, ossessivo, spietato. Doloroso e puro, anche nelle sbavature. Coraggioso e prezioso. Polemico e violento. L’ulteriore tassello nel cammino di un artista ribelle, ferito e soprattutto vero. Con troppo spazio tra sé e sé. E una carriera raminga atta a riempirlo.

Giulio Casale
Dalla parte del torto
Novunque

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