Il webdoc è una nuova forma di narrazione documentaristica che ha nel web il suo fulcro, come piattaforma di diffusione e strumento di scrittura. La Francia in particolare se ne sta dimostrando pioniera e, tra post sui blog e pagine di quotidiani online, sono già maturate evolute riflessioni a riguardo.

Un webdoc molto curioso in vista delle prossime elezioni presidenziali francesi è La campagne à vélo, che unisce i due eventi mediatici che più appassionano i cugini transalpini: le elezioni presidenziali e il Tour de France. Dal 6 Febbraio al 6 Maggio i due giornalisti Raphael Krafft – alla sua terza campagne à vélo, – e Alexis Monchovet percorrono in bici l’Hexagon alla scoperta dei francesi che si apprestano a votare – o meno, – tra incontri fortuiti, chiacchierate au comptoir e tazze di tè in salotto.

I loro video, le foto e i post, come anche la loro localizzazione, possono essere seguiti in tempo reale principalmente sui social network Facebook e Twitter, dove Raphael e Alexis vengono anche contattati per ricevere ospitalità nelle varie cittadine in cui passeranno la notte, anche se non sempre trovare un tetto per la notte è stata cosa facile. Tuttavia per il prossimo passaggio a Tulle possono dirsi tranquilli grazie a un’accoglienza un po’ speciale.

Il titolo gioca sul significato della parola “campagne” che sta a indicare tanto la campagna elettorale, quanto la campagne, la provincia francese, patria della maggioranza silenziosa a cui Sarkozy ha fatto appello lo scorso 16 marzo, dopo averne sottolineato l’eventuale peso sparigliante. Il luogo dei foyer riscaldati non dalle vampe dei dibattiti politici dei grossi centri urbani, ma dal bouillon quotidiano di fabbriche che chiudono, di bisogno di  sicurezza, di pesticidi e del loro eventuale impiego.

Sono questi foyer che i due giornalisti vogliono frequentare, per scoprirne le meccaniche che determineranno le scelte in sede elettorale. «Sia chiaro però, – hanno affermato Krafft e Monchovet, – che il risultato dell’indagine giornalistica non ha alcuna ambizione scientifica, ma che si tratterà di un “tentativo impressionista” più che di un’immagine fondata su un campione di dati». Il resto poi è tutto nell’avventura, nell’abbandonarsi agli incontri fortuiti nei bistrot, nella poeticità dell’incedere viandante.

Dopo la partenza con un rituale café-calva al bar Tabac des postes di Rue de Clingnancourt a Parigi, già alla prima tappa, Garge-lès-Gonesse, in una comunità di suore che li ospiteranno per la notte, arriva probabilmente il più lucido contributo alla loro indagine: «Si ha l’impressione che le nostre problematiche quotidiane non arrivino nei dibattiti politici. È come se i problemi della gente, i problemi che sentiamo tutti i giorni qui, nei luoghi che viviamo, siano qualcosa “fuoricampo” per la politica» dice Soeur Beatrice. «È anche per questo che tanti si apprestano a non votare».

Non a caso il “reportour” è partito dalla banlieue parigina – che per Soeur Beatrice è «il laboratorio della mondializzazione della società» – e terminerà dopo 90 giorni in un’altra banlieue nei pressi di Lione, a Venissieux.

Sebbene il reportage non sia ancora terminato, è già possibile riconoscere quantomeno il leitmotiv: “J’en ai marre de tous. Ils sont tous des fous” (Sono stufo, sono tutti matti, ndr). Sarà un colpo di reni a portare molti “campagnoli” al voto, non per effettiva e sana fascinazione, ma per esasperazione, per paura, degli immigrati da un lato, per rassegnazione da voto utile dall’altro. C’è una sensazione di sfiducia, di carenza di candidati veri, adeguati, che sfocia addirittura nel rimpianto di Chirac, anche per i più insospettabili.

Sylviette e Jacky, operai in pensione, nel tremolante silenzio della sala da pranzo, dopo aver votato comunista fino agli anni Settanta, da quarant’anni manifestano il loro malcontento votando estrema destra. Eppure, se oggi fosse candidato Jfk, lo voterebbero.

Bruno Billion, viticoltore, produttore di Champagne, già elettore di Le Pen nelle ultime due presidenziali, questa volta non andrà al seggio neanche per votare scheda bianca. Anne Druelle, ecologista benché convinta da Eva Joly, voterà utile, perché il 21 aprile 2002 – quando per duecentomila voti Jean-Marie Le Pen buttò fuori dal ring del secondo turno il socialista Jospin, – fu un trauma per lei. Ma qua e là escono fuori anche le parole per esprimere la reale esigenza del Paese: un tecnocrate, un economista, dice qualcuno. «Une vision! » si lascia andare Raphael.

Non marginali, poi, le “visioni” della Francia dei nuovi francesi, quelli nati altrove, con le loro radici e un’altra madrelingua. Come Mamadou, piccolo senegalese di sei anni, che sentenzia come un petit prince «se la vostra lingua materna è il francese, vuol dire che non avete un Paese!». O come Fred, originario di Casamance, secondo cui la Francia «c’est le coin, sourtout», è il quartiere.

Aspettando la fatidica data del 6 maggio prossimo, Raphael e Alexis continuano la loro personale campagne: cosa emergerà ancora dal sommerso di questo paese in cui non mancano di certo le contraddizioni?

di Pierpaolo Filomeno

parigi@ilfattoquotidiano.it

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