Sono veramente nauseata dall’italia, non ho un lavoro stabile da diversi anni e sono ormai all’età di 47 anni, quì ormai vecchia per il mondo del lavoro, ho due figli 13/16 e il loro futuro mi preoccupa più del mio… ho uno zio a Toronto e stavo proprio pensando di venire a vedere come è la vita e decidere se è il momento di dare un giro di boa…” A distanza di tre anni da quando pubblicai il mio post “Come si vive a Toronto”, continuo a ricevere messaggi come questo da parte di italiani/e vittime della crisi economica che stanno riprendendo a considerare quella che fu – per molti dei nostri lontani parenti di duecento, cento, ottanta o anche solo sessanta anni fa – l’unica soluzione possibile: emigrare.

Nella fotografia della partenza non ci sarà più la valigia di cartone degli inizi del XX secolo, ma nemmeno c’è più la Samsonite degli anni Ottanta. Sarà la valigia comprata al mercatino dai cinesi, quelle che costano poco e ci fai due viaggi, prima che si rompano. E se la tentazione del fare la valigia col solo biglietto di andata sta tornando a essere un’opzione di vita per un numero crescente di italiane e italiani, forse è utile chiarire alcuni aspetti.

Emigrare è difficile e stressante quanto barcamenarsi in Italia nelle attuali condizioni di crisi economica. Certo, Toronto è, fra tutte le mete possibili, una delle metropoli più accoglienti per un italiano/a che voglia ricominciare daccapo. Con oltre 850.000 italo-canadesi, tre Little Italy, il più antico quotidiano italiano all’estero, radio e televisioni che trasmettono in italiano, l’italiano che resiste ancora come seconda lingua della città (ma solo perché si divide il mandarino dal cantonese, sennò la lingua di Dante qui sarebbe la terza per diffusione) e la possibilità di comprare in diversi negozi e supermercati prodotti italiani impossibili da trovare nel 99% del Nord America (dalla mozzarella di bufala al prosciutto San Daniele, dal pesto ai pomodori pachino), Toronto è, assieme a Buenos Aires, la città straniera meno estranea che un italiano possa immaginare, a patto che si sia pronti a vivere dentro il mosaico multiculturale canadese.

Poiché la cosa migliore per conoscere il sapore di una mela è di darle un morso, suggerisco agli aspiranti emigranti di cominciare con il venire qui con un visto da turisti, di sei mesi. Meglio se nei mesi invernali, per capire se potete vivere a Toronto durante i suoi mesi meno ospitali. Trovatevi una sistemazione – magari evitate il depressivo seminterrato, anche se è di gran lunga la soluzione più economica – e pagatevi un buon corso d’inglese che vi aiuti a ridurre il gap culturale. Se non ve lo potete permettere (ma ce ne sono di molto economici) ricordatevi che una volta ottenuto lo status di immigrante potrete frequentare strutture come il Costi, non a caso dal nome italiano.

Per il resto, guardatevi attorno. Vedete se i ritmi di questa civilissima ma forse un po’ monotona (il suo soprannome, dato dagli statunitensi, è “Boronto”, dove “bore” in inglese significa “noia”) città vi vanno a genio. Trasferirsi significa tre cose: sradicarsi, reimpiantarsi, adattarsi a ricominciare dagli scalini più bassi della società, e parlando una lingua che non è la propria. Sono pochissimi i privilegiati che hanno la possibilità di venire qui a fare un Ph.D., o di essere assunti come giornalisti al Corriere canadese o a Chin Radio. Come per una legge del contrappasso, i lavori più richiesti a Toronto sono quelli che spesso in Italia fanno gli emigranti: il panificatore, il pizzaiolo, la badante, l’infermiere. Rispetto all’Italia, però, esiste anche la possibilità di essere assunti per determinate categorie di “lavoratori qualificati” (qui la lista). Ma per ambire a questi posti occorre prima ricevere un’offerta di contratto individuale e poi presentare domanda. Ogni anno il Canada ammette un certo numero di questi “skilled worker” e il procedimento funziona su base numerica: chi prima presenta domanda, prima verrà valutato, fino al raggiungimento del numero chiuso. Intendiamoci: il meccanismo è ottimo per chi ci rientra, perché tra l’altro assicura al Canada un’immigrazione altamente qualificata. Ma per chi non ci rientra?

Per questi, esiste la possibilità di inserirsi come agente immobiliare o segretaria, avendo a che fare con un mercato immobiliare e impiegatizio che, qui, ha assicurato fino a oggi ampi guadagni (negli ultimi 5 anni la media della rivalutazione degli appartamenti e delle case di Toronto è stata del 12% annuo), ma non è detto che il trend continui a lungo. Le dinamiche d’ufficio canadesi sono alquanto diverse da quelle italiane: il concetto dell’essere parte di una squadra, qui, è qualcosa di capitale, e se non si sente quello che mi piace chiamare “l’attaccamento alla maglia” della propria azienda, si rischia di trovarsi a disagio.

Il Canada sta reagendo alla crisi globale certo meglio dell’Italia, e l’Ontario – la provincia dove Toronto sorge – è una delle zone più benestanti del Paese. Tuttavia, la crisi esiste anche qui. Nella Legge di Bilancio 2012 presentata ieri, il Governo ha indicato di voler raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2015, ma per farlo ha dovuto preventivare tagli alla spesa per 5,2 miliardi di dollari, insistendo in particolare sul settore pubblico, che dovrà snellirsi di circa 19.200 posti di lavoro fra gli statali. Come se non bastasse, anche il Parlamento di Ottawa ha dovuto approvare una nuova riforma delle pensioni che entrerà in vigore nel 2023, portando l’età della pensione dagli attuali 65 ai 67 anni, un dato che riguarderà tutti i lavoratori oggi sotto i 54 anni. Il Paese della Foglia d’Acero, inoltre, si prepara a dire addio al penny, la cui produzione costa 11 milioni di dollari l’anno. Altri tagli hanno poi riguardato l’agricoltura, la Sanità (che in Canada è pubblica e di buon livello) e la Difesa.

Tutto ciò per dire: il Canada non è l’Eldorado, ma è certo un posto dove tutto è più facile rispetto all’Italia di oggi. O di ieri, a giudicare dai numeri storici della nostra emigrazione in questo paese nordico, pulito, e multiculturale.

Articolo Precedente

A San Francisco “La Luna” di Enrico Casarosa: un italiano alla Pixar

next
Articolo Successivo

Da Battipaglia all’University College

next