Mentre Monti scrive una lettera al Corriere della Sera in cui dice, tra le varie cose, “gli italiani hanno capito che vale la pena di affrontare sacrifici rilevanti”, gli italiani – che sono, ormai da tempo immemore, alle prese con sacrifici che hanno tutta l’aria di diventare, nel medio termine, ancora più rilevanti – lo prendono in parola e si sacrificano: dandosi fuoco.

Il gesto disperato dell’artigiano bolognese che si è appiccato le fiamme all’interno della sua macchina davanti alla sede dell’Agenzia delle Entrate sembra infatti solo l’ultima (anzi la penultima, visto l’episodio di Verona) di una serie che si profila per il futuro, stando al bollettino di marzo, tragicamente lunga. L’autoimmolazione è una forma di suicidio tipica dei popoli soggiogati – i monaci tibetani, le donne afghane –, è cioè una fuga rituale dalla violenza e dalla brutalità del potere. In Italia siamo alle prese non solo con una classe dirigente fautrice di una politica manesca e brutale nei confronti dei lavoratori, ma anche con una totale assenza di forze capaci di opporsi e di portare la bandiera dei più deboli. I gesti di autolesionismo sono il punto di non ritorno di una società allevata da trent’anni nell’individualismo più selvaggio, un individualismo che ha minato la democrazia in uno dei suoi fondamenti: la partecipazione. Le rivendicazioni di disoccupati, precari, piccoli imprenditori con l’acqua alla gola, non trovano oggi risposte valide nei tradizionali strumenti di lotta collettivi. La crisi è soprattutto una crisi di uomini che affogano in solitudine. Così si spiegano, io credo, i gesti di autoimmolazione, i suicidi di Stato, di cui oggi tutti parlano.

Mi chiedo, allora, se i membri del governo, ansiosi di rendere più facili i licenziamenti, i giuslavoristi che si riempiono la bocca di parole come mobilità e flessibilità avendo scambiato uno dei diritti sacri dell’uomo con i muscoli atrofizzati (e quindi poco mobili e poco flessibili) di un vecchio atleta da pensionare, abbiano capito una cosa fondamentale: che per un uomo, per qualsiasi uomo, la fine del lavoro è la fine di una storia, di una condizione di vita, di un mondo.

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