Devo confessare che certe telefonate di Antonio Tabucchi mi creavano un po’ di agitazione. “Vorrei scrivere qualcosa su…”, e con assoluta cordialità ci metteva nei guai. Sostituite ai puntini i nomi di un paio di presidenti della Repubblica, di altrettanti pontefici e di qualche mostro sacro della intellighenzia di sinistra (con Berlusconi sempre sullo sfondo) e capirete i motivi della mia apprensione. Perché Tabucchi, come dicono i patiti della boxe, mirava sempre al bersaglio grosso. Quante volte in questi dieci anni, prima all’ Unità con Furio Colombo e poi al Fatto, ci siamo trovati a maneggiare la dinamite fabbricata da uno dei più grandi scrittori contemporanei pensando: giustissimo, fantastico, ma se lo pubblichiamo così domani ci chiudono il giornale.

Siamo rimasti in piedi, anche se in qualche caso il botto ha mandato in frantumi più di una cristalleria. Lo ha ricordato domenica sul nostro sito Marco Travaglio di quando, in seguito a un articolo in cui Antonio criticava Ciampi per le sue aperture ai “ragazzi di Salò”, il senatore Manzella, consigliere del Quirinale, lasciò la presidenza dell’Unità. Il tritolo di Tabucchi aveva la miccia lunga e la lettura dei primi capoversi così limpidi, fluenti e coerenti (come si disse di altri grandi, Tabucchi era la lingua italiana) non faceva quasi mai presagire l’inevitabile detonazione, illudendo il povero direttore che in fondo quella fosse solo ispida letteratura mescolata a sacrosanta indignazione civile. Errore.

Del resto i suoi articoli erano intoccabili non per un qualche puntiglio dell’autore, ma per la cartesiana concatenazione delle cause con gli effetti. A Tabucchi dobbiamo (devo) quella straordinaria sensazione che dà finalmente senso a un mestiere altrimenti malinconico e noioso: riuscire a fare incazzare qualche intoccabile. Il giorno dopo ne ridevamo insieme, mentre dall’alto fioccavano le più irate proteste. In questo senso la sua indomabile libertà è stata per molti di noi meravigliosamente contagiosa. Contando sul suo spirito di ragazzaccio, nella primavera del 2009 gli parlammo dell’avventura del Fatto. Ne fu entusiasta e quella volta fummo noi a contagiare lui. In questi tre anni ci ha seguito da vero tifoso e se per qualche motivo, a Lisbona o a Parigi, non riusciva a leggerci via Internet, se ne lamentava assai. Chiamava spesso anche per sapere che cosa succedeva in Italia, Paese che amava molto. Dalla sofferenza con cui ne parlava, forse troppo.

Il Fatto Quotidiano, 27 Marzo 2012

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