Qui Repubblica
Scalfari contro Zagrebelsky (e De Benedetti)

Di solito i grandi amori (politici) di Eugenio Scalfari, da Ciriaco De Mita a Walter Veltroni, Dario Franceschini restano platonici. Il sostegno del Fondatore, è noto, non porta benissimo. Quindi il successo di Mario Monti è un’esperienza nuova, che spinge Scalfari a scrivere editoriali i cui titoli ricordano le liriche degli aedi berlusconiani ai bei tempi, “La Luce delle Riforme nel Buio della Politica”, “Se cento giorni vi sembrano troppi” e così via. Scalfari è in sintonia con la linea culturale e politica del giornale che, come suggeriva il sondaggio di Ilvo Diamanti ieri, considera Monti non un premier transitorio ma l’unico di cui il Paese ha bisogno, anche dopo il 2013.

Eppure c’è anche Gustavo Zagrebelsky, il presidente emerito della Consulta, firma di Repubblica promossa a coscienza civile negli anni del berlusconismo, auctoritas indiscutibile. Che però ora ha ceduto, dice il Fondatore, a “l’insofferenza verso la ‘dittatura’ dei tecnici”. In effetti nel manifesto di Libertà e Giustizia, presentato lunedì scorso, Zagrebelsky ha scritto che i tecnici sono un “pharmakon” ma “la medicina che guarisce può diventare il veleno che uccide”. Serve quindi una “rifondazione della politica”, non prolungare la sua sospensione.

E allora domenica, nel suo editoriale Scalfari se la prende con quelli del “dito medio”, dai No Tav a Sabina Guzzanti, non nomina Zagrebelsky ma sembra rivolgersi anche a lui quando elenca tutte le ragioni per cui il governo deve proseguire nel suo imprescindibile lavoro. Ci sarebbe poi il piccolo problema che tra gli ispiratori di Libertà e Giustizia c’è Carlo De Benedetti, l’editore di Repubblica. CDB ha detto a Servizio Pubblico che ormai non farà mai politica, ma certo LeG è stata per lui un po’ la simulazione di come sarebbe stato trasformare un giornale-partito, come dicono tanti, in un partito con un giornale. Scalfari non è certo uno subordinato all’editore, anzi, e nessuno gli dirà mai che Libertà e Giustizia non si può criticare. Il Fondatore poi sa che De Benedetti, a differenza di Zagrebelsky, ha un’attenuante per il suo scarso montismo: da anni l’editore di Repubblica detesta cordialmente Corrado Passera. E quindi non può amare un governo che si regge, oltre che su Monti su un suo ex assistente.

Qui Corriere
L’Agenda Giavazzi e i ritmi del governo

Due cose irritano Mario Monti: le critiche palesemente ingiuste e quelle palesemente fondate. Se appaiono sul Corriere della Sera l’irritazione è maggiore. Soprattutto se la firma è quella di Francesco Giavazzi. “Sono soltanto pettegolezzi, occupatevi di cose più serie”, dicono professori bocconiani amici di entrambi. “Hanno due personalità forti, ognuno pensa con la propria testa, è la dimostrazione che non esiste un pensiero unico bocconiano”, dice un altro. Eppure il rapporto tra i due comincia a diventare politicamente rilevante.

Bastano due esempi: il 4 dicembre Giavazzi scrive, in coppia con Alberto Alesina, un editoriale sul Corriere: “Caro presidente, così non va”. La delusione più forte, scrivono i due uno diviso tra Bocconi e MIT di Boston, l’altro fedele ad Harvard, è che nel decreto d’emergenza si prospetta un aumento dell’Irpef, un’eresia per i due liberisti ortodossi. Alzare le aliquote significa disincentivare la produzione di reddito e in recessione non si può fare, dice un dogma del pensiero giavazziano. Monti, che tutto sommato è d’accordo, presenta la manovra e bacchetta Giavazzi e Alesina davanti ai giornalisti: “frettolosi e valenti economisti amici che si sono fidati più delle vostre indiscrezioni che del nostro buonsenso”. In realtà nelle bozze della manovra l’Irpef c’era eccome.
Sabato al convegno della Confindustria, Monti se la prende con “un autorevole economista, mio collega e amico, Francesco Giavazzi” che “dà un esempio di eccesso di impazienza quando questa mattina scriveva sul Corriere cose imprecise che disorientano completamente chi voglia valutare”.

La colpa di Giavazzi? Aver detto che il decreto liberalizzazioni tradisce “l’afflato liberista” che ispirò il governo. Difficile contestarlo. Giavazzi suggeriva anche a Elsa Fornero di dimettersi se pure la riforma del lavoro verrà annacquata. Monti: “Non ci abbandonerà”. Però poi su articolo 18 ha ribadito che la riforma arriverà e sarà così notevole da meritare un “road show” per spiegarla all’estero. Una volta Giavazzi era quello dell’“Agenda Giavazzi” che il Pd si affannava a celebrare e imitare. Ora l’“Agenda Giavazzi” è anche l’“Agenda Monti” (o viceversa). E quindi il premier è assai meno propenso dei dirigenti democratici a ricevere suggerimenti su come attuarla.

Il Fatto Quotidiano, 20 Marzo 2012

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