Siamo così concentrati sui nostri problemi che non ci accorgiamo, a volte, che anche in altre aree del mondo sarebbe necessaria una stagione riformatrice.

Si è tenuta a Shanghai, a inizio marzo, una conferenza organizzata dalla Banca Mondiale nella quale è stato presentato e discusso il rapporto Cina 2030 sulle prospettive a medio termine dell’economia cinese.

La domanda centrale era: riuscirà la Cina a diventare un paese ad alto reddito nell’arco dei prossimi due decenni?

Il Rapporto prevede che nella seconda metà di questo decennio la crescita dell’economia cinese rallenti verso il 7 per cento annuo (dall’8,5 attuale) per poi  scendere al 5 per cento dal 2026-2030. Questo rallentamento, in linea con le stime del DRC (Development Research Centre, un centro studi del governo cinese), dovrebbe consentire alla Cina di diventare la prima economia mondiale e un paese ad alto reddito, secondo la definizione del DRC, vale a dire un paese con un reddito procapite paria 16.000 dollari USA (molto basso se confrontato con i 34.000 dollari USA del reddito procapite italiano nel 2010).

Ma per poter raggiungere questo obiettivo la Cina dovrebbe realizzare una lunga lista di riforme strutturali, si argomenta nel Rapporto della Banca Mondiale. Lo stato cinese dovrebbe ridurre i controlli sui mercati dei capitali (i tassi di interesse in Cina sono infatti fissati per decreto e non sulla base dell’agire dei mercati); il mercato del lavoro è sottoposto a forti regolamentazioni, soprattutto di limitazione della mobilità dalle campagne; la terra è soggetta a vincoli ed espropriazioni statali. I settori industriali inoltre sono dominati da imprese statali. Va inoltre riequilibrato il rapporto tra investimenti e consumi. Al momento i governi locali cinesi cercano di incoraggiare gli investimenti di produttori stranieri e di imprese statali offrendo terra a basso costo (spesso espropriata ai contadini), tasse locali molto ridotte e energia elettrica sotto costo. La crescita cinese ha finito per essere quasi interamente trascinata dagli investimenti con un elevato costo in termini ambientali. L’inquinamento, l’avvelenamento delle falde acquifere, la distruzione delle risorse naturali in Cina ha pochi eguali nel mondo. Una riforma fiscale e programmi di risanamento ambientale sono tra le priorità del Rapporto.

Il forte squilibrio verso l’accumulazione di capitale lascia al lavoro una fetta di reddito nazionale esigua e questo genera una forte disuguaglianza. I bassi salari e l’assenza di un sistema pensionistico e di welfare fanno si che la domanda interna sia molto compressa. La Cina esporta massicciamente e i cinesi però non si arricchiscono, in media, come potrebbero. Questo fa sì che la domanda che la Cina esercita verso il resto del mondo è molto ridotta in rapporto al suo peso mondiale.

La Cina accumula giganteschi surplus di bilancia commerciale che però mettono a rischio le relazioni con gli altri paesi (USA e UE innanzitutto).

La domanda allora è: ce la farà la futura classe dirigente cinese a mettere in pratica questa agenda riformista? E se fallisse?

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