È il ritratto di un artista a tutto tondo, quello che viene tracciato dal giornalista Paolo Giovanazzi nel libro “Lucio Dalla. Una vita a modo mio” (Aliberti, 2012). Che inizia dalla fine, la fine della vita del musicista, scomparso per un attacco cardiaco il 1 marzo scorso mentre si trovava a Montreux, in Svizzera, e la fine di un’epoca. Nel secondo caso, però, non si tratta di un’affermazione dell’autore, ma di una domanda. Interrogativo lecito perché, come scrive il giornalista, “è svanito il mondo che ha permesso a un giovane clarinettista stregato dal jazz di diventare uno dei più grandi autori e interpreti di canzoni comparso sui palchi d’Italia”.

La risposta alla domanda di cui sopra passa attraverso l’analisi – che alterna ricostruzione a percorso narrato – proprio di quel mondo. Un mondo che esordisce con l’infanzia difficile di un bambino estroso che a 7 anni vede morire il padre, e la madre assentarsi perché deve lavorare per due. Ma quel bambino estroso, costretto alla vita di collegio nei mesi della scuola, viene tenuto sulle ginocchia da un ragazzino più grande che risponde al nome di Renzo Arbore. E scopre presto un grande amore, quello per il jazz, che lo porterà ad attirarsi ammirazione di tanti, ma anche antipatie, tra cui quella del regista di Pupi Avati.

Sono gli anni delle band, come i Flippers. Quelli in cui si fa conoscere per il suo modo di suonare “alla Ray Charles” e in cui incrocia futuri “colleghi” come Edoardo Vianello e Gino Paoli, con il quale intesse un’amicizia e che vuole farlo produrre dalla Rca, già madrina di Gianni Morandi e Rita Pavone. E sono gli anni dei festival, dal Cantagiro a Sanremo, dove nel 1967 Lucio Dalla alloggia accanto a Luigi Tenco, suicida per protesta contro un pubblico che preferisce Io, tu e le rose. Sarà uno choc per il musicista bolognese. Uno choc di cui non parlerà per anni e che affronterà in termini espliciti solo nel 2008 in un’intervista concessa al quotidiano La Stampa.

Nella ricostruzione che Paolo Giovanazzi fa della vita di Lucio Dalla, però, c’è anche la reazione, l’insistenza nel proseguire un percorso di sperimentazione coniugato in parallelo alla prudenza di chi lo circonda. Così il brano Gesù Bambino diventa 4/3/1943 per quanto si tratti di ritocchi che non evitano di spingerlo verso la canzone politica. Ma rispetto ad altri cantautori che scalavano classifiche e favori degli ascoltatori, per lui si deve parlare più di canzone civile interpretata da un poeta che prende a riferimento un altro poeta, Roberto Roversi.

I manager della Rca, che assistevano impotenti alla virata e con l’unica eccezione del grande capo Ennio Melis, profetizzarono un “suicidio commerciale”. Invece un autore che è stato a lungo vicino a Dalla, Gianfranco Baldazzi, ha detto nel 1990 che in quella musica “c’è McCartney e Bach, c’è Puccini e i Pink Floyd, c’è Gino Paoli e Harry Nilsson. Ma l’amalgama è talmente bello che ogni riferimento è irrintracciabile o, se mai, suona come una citazione”.

Nella seconda metà degli anni Settanta Lucio Dalla diventerà l’“incantatore di folle”. Separatosi nel 1976 da Roversi, ripensa a melodie e testi, deve superare il dolore per la morte della madre Iole e si prende una pausa alle Isole Tremiti da cui torna con l’album Com’è profondo il mare. In esso, scrive Giovanazzi, “riesce a trovare il punto di equilibrio tra la canzone ‘civile’ progettata con Roversi e una maggiore semplicità espressiva, almeno apparente […]. L’osservazione sociale non viene accantonata […], ma lo stile è cambiato, c’è più spazio per la musica”.

Nasce l’asse con Francesco De Gregori, e Dalla non si fa abbattere da sporadiche contestazioni ai concerti potendo contare su una rodata squadra di collaboratori, oltre che su un gruppo di musicisti che comprende Ricky Portera, Gaetano Curreri, Giovanni Pezzoli, Marco Nanni e Fabio Liberatori, gli Stadio. Si consolida inoltre il rapporto professionale e di amicizia con Rosalino Cellamare, Ron, e la scalata delle classifiche di vendita rende Dalla “contento [perché può] comunicare con tanta gente, convinto che le canzoni servano proprio a questo scopo”.

Gli anni successivi sono una conferma. Nella sua produzione artistica c’è la Bologna esportata nella capitale e all’estero, ci sono i concerti per scopi superiori rispetto all’esibizione pura e semplice, come accade nel 1993 a Gioia Tauro dove suona per Amnesty International insieme a Nino D’Angelo, Mango e Franco Battiato. E c’è la coronazione del sogno del fu enfant prodige della musica italiana: quella dello strambo artista che suona “alla Ray Charles” e che finalmente può esibirsi con il re del blues venuto da Albany, Georgia. “Le cronache registrano qualche fischio di dissenso”, scrive Giovanazzi, “ma solo perché il duetto si conclude troppo presto. In un certo senso si chiude un cerchio per Dalla [e] ai tempi di Flippers nessuno lo avrebbe mai immaginato possibile”.

C’è infine l’aspetto legato alla religione e al cattolicesimo. Dalla, nel 2000, disse: “Io credo nella libertà, nella tolleranza, nel riconoscimento di tutte le confessioni, perché credo che sa importante una società come la nostra, che va verso una società più complessa, più enigmatica, come quella delle macchine, abbia bisogno di fede”. Il rapporto con l’istituzione religiosa non è stato sempre semplice. Ci sono state le posizioni politiche di Dalla a complicarlo talvolta, la presa di distanza dall’Opus Dei e anche la sua vita privata. Ma il rapporto con Dio, poco filtrato se non dal padre Bernardo Boschi, non è mai stato in discussione.

Dal cinema all’opera, dall’arte alla televisione. Sono stati numerosi i volti dell’artista scomparso, raccontati anche dalle interviste che chiudono il volume a Ricky Portera, Giovanni Pezzoli e Roberto Costa. Volti che tornano all’interrogativo iniziale: con la morte di Dalla, è scomparsa un’epoca? Qualche elemento ulteriore per rispondere – proveniente più dal ruolo inconsapevole che il musicista ha avuto nella vita altrui – viene dato nella prefazione scritta dal giornalista del Fatto Quotidiano Emiliano Liuzzi, responsabile dell’edizione online dell’Emilia Romagna, che ha curato il volume.

“Ci sono i momenti”, scrive Liuzzi. “Ci sono le vacanze passate ad ascoltare Futura, i primi baci sulle note di Piazza Grande, le fidanzate con Caruso, l’amore vero, quello dell’età adulta, con Cara […]. C’è sempre stato Lucio Dalla, come se fosse lì, accanto, con una voce che era solo sua, picchiate e glissati che sono prerogativa unica di chi ha talento da vendere […]. Se n’è andato un grande artista, un grande della canzone d’autore. Ma soprattutto se n’è andata una grande persona. Amico di tutti noi”.

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