La “paccata di soldi” tirata fuori dal ministro Fornero fa pensare seriamente a quel linguaggio berlusconiano che tanto abbiamo contestato in questi lunghi anni. Sappiamo bene che il paragone può essere indecente – su questo stesso blog abbiamo definito l’ex ministro Maurizio Sacconi un novello “talebano” proprio per l’ideologizzazione forzata che aveva impresso al tema della riforma del lavoro. E dispiace che sia così, perché in questo modo la politica diventa una melassa indistinta e perde di significato. E’ bene, però, evitare di soffermarsi sulle forme – anche quando, come in questo caso, sono rivelatrici di tic di fondo – e guardare alla sostanza. E la sostanza del dibattito sui temi sociali oggi parla di una riorganizzazione della spesa sociale che allude a una riorganizzazione complessiva della società con pesanti ricadute per le generazioni passate e per quelle a venire.

Già con le pensioni si è proceduto a colpi di machete, sapendo che sull’onda del fallimento berlusconiano, della paura del default, della volontà di vedere alla prova i “tecnici” al governo, Mario Monti e i suoi ministri avevano carta bianca. Si è allungata terribilmente l’età di pensionamento, si sono ridotte le prestazioni e, soprattutto, si è introdotto integralmente quel sistema contributivo i cui effetti si vedranno davvero solo fra trenta-quarant’anni, quando di scoprirà che le pensioni non raggiungeranno il 40 per cento dell’ultimo reddito disponibile.

Ora ci si riprova con il lavoro. E si scopre che gli intenti di “grande riforma” avanzati all’inizio erano solo un bluff. Basti guardare al dibattito sul contratto unico. Ci si ricorderà tutta la discussione sul “modello Boeri” o “modello Ichino”, sulla possibilità di eliminare tutta la giungla dei contratti atipici. Nel dicembre scorso, in una molto citata intervista al Corriere della Sera, Elsa Fornero spiegava di voler giungere proprio “al contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che non tuteli più al 100 per cento il solito segmento iperprotetto”. In effetti era chiaro che il contratto unico costituisse, già allora, solo merce di scambio con l’articolo 18, cioè con l’eliminazione della supposta protezione per gli iperprotetti. Una volta che lo scambio è saltato, il contratto unico – risposta parziale ma nella giusta direzione – è saltato e oggi di eliminare i contratti atipici non si discute più.

Sugli ammortizzatori, invece, si rischia una vera e propria truffa. Perché con l’idea, giusta e doverosa, di tutelare anche coloro che non hanno alcun beneficio fiscale – secondo la Banca d’Italia sono almeno 1,6 milioni di persone ma in realtà ci sarebbe da considerare più estesamente tutta l’area del non lavoro – si prendono le risorse attuali e le si spacchettano su una platea più ampia. Riducendo le prestazioni, già scarse, e senza nemmeno arrivare a tutte le tipologie di lavoro. La sostanza dello scontro è questa e non se ne esce se non c’è un afflusso cospicuo di maggiori risorse da destinare ad ammortizzatori della crisi.

Sull’articolo 18, infine, si procede a colpi di ideologismi facendo diventare una tutela contro il licenziamento discriminatorio – protetto dal reintegro sul posto di lavoro – una sorta di impedimento complessivo a licenziare. Basta guardare ai mille licenziamenti diversi cui assistiamo ogni giorno per capire dov’è la realtà.

Il problema di fondo, però, al di là delle “paccate di soldi”, è che l’intera operazione si giustifica solo con la volontà di ridurre l’attuale sistema di welfare. “E’ il debito che si è giocato il welfare” diceva recentemente il ministro in una conversazione con Repubblica. Ma il debito non lo hanno certo provocato i pensionati, i precari o i lavoratori in mobilità. Proprio qualche giorno fa è stato pubblico lo studio Eurostat sulla spesa sociale europea da cui emerge che l’Italia è perfettamente in linea con la spesa dell’Europa a 27, il 28,4 per cento del Pil. Solo che questa percentuale, riferita al 2009, deve tenere conto del fatto che nel 2008 il Pill italiano è sceso dell’1,4 per cento e addirittura del 5,1 per cento nel 2009. Solo così si spiega perché una percentuale di circa il 26 per cento mantenuta costante per tutti gli anni 2000 sale di colpo al 27 e poi al 28 per cento negli ultimi due anni (2008 e 2009) presi in esame dal rapporto Eurostat.

L’Istituto statistico europeo fa notare però che se l’Italia è ampiamente sotto la media europea per quanto riguarda la spesa per disoccupazione, malattia, assistenza alle famiglie e edilizia sociale, si colloca ben sopra per quanto riguarda la spesa pensionistica: il 17 per cento contro una media della Ue a 27 del 12,8. Ma sempre l’Eurostat è costretta a ricordare due cose: che nella spesa pensionistica italiana è calcolato anche il Tfr e soprattutto che l’Italia ha una popolazione sopra i 60 anni pari al 26,1 per cento contro una media europea del 22,8. Insomma, ci sono gli anziani, soprattutto donne – che usufruiscono della pensione di reversibilità – e quindi occorre spendere di più in questa direzione.

Fatti i conti, l’Italia non ha aumentato la spesa sociale in modo tale da giustificare l’argomento del debito. Semmai, occorre andare a guardare la spaventosa evasione fiscale, e i regali fiscali alle imprese finanziarie e non – circa il 10 per cento in un decennio, sempre secondo i dati Eurostat – per capire chi ha generato il debito. Ma la realtà è spesso una medicina amara quando si persegue una missione (e non a caso anche in Italia sta nascendo l’iniziativa per un Audit sul debito pubblico per capire da chi e come è stato generato). In realtà, la missione del governo Monti è quella, in sintonia con la Bce, di rivedere il modello sociale europeo e il ministro Fornero con tutta la sua competenza e la sua internità al mondo illuminato della buona borghesia bancaria torinese, si è prestata, convinta, allo scopo.

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