Quando la Germania occidentale affrontò il tema dell’aborto, dovette bilanciare l’esigenza di assicurare l’accesso a questa possibilità con la necessità di tutelare il paese da rischi di pratiche eugenetiche che rimandavano agli orrori del recente passato nazista.

La Corte Suprema federale tedesca (certo non sospettabile di influenza cattolica) evidenziò che il diritto all’autodeterminazione ed alla realizzazione della personalità della madre e il diritto alla vita del feto sono beni costituzionalmente tutelati, e, nel bilanciamento dei valori, il diritto alla vita prevale. Per tali ragioni, affermò, i limiti dell’aborto devono essere ben determinati e non sono una questione meramente individuale, stante il compito dello Stato di garantire i diritti fondamentali.

A maggior ragione il principio illustrato varrebbe per un neonato, soggetto a sé stante il cui diritto alla vita non può essere subordinato a diritti o esigenze secondarie dei genitori, al contrario di quanto ipotizzato in “Aborto post-natale: perchè il bambino dovrebbe vivere?”, recentemente pubblicato da due ricercatori italiani in Australia. Alberto Giubilini e Francesca Minerva scrivono infatti: ciò che chiamiamo aborto post-natale (uccidere un neonato) dovrebbe essere ammissibile in tutti i casi in cui lo è l’aborto, compresi i casi in cui il neonato è sano” a causa della presunta coincidenza dello status morale del neonato e del feto, non ancora persone.

In quanto difensore dei diritti umani, ho già parlato qui sul blog di tale articolo. Fra i tanti commenti ricevuti, la replica degli autori che mi hanno accusata di aver fatto cattiva informazione, dicendosi meravigliati che il giornale me lo avesse consentito.

Ma Ilfattoquotidiano.it distingue i fatti dalle opinioni: i blog hanno grafica e collocazione diversa nelle pagine rispetto alle notizie e, nel perfetto stile dei blog, l’autore – giornalista o meno – può riportare un fatto o soltanto commentarlo, anche esprimendo le proprie emozioni. Linkando i documenti commentati, si garantisce al lettore la piena informazione. Perciò avevo inserito il link all’articolo originale. Diversamente da me si sono comportati vari altri giornali che hanno parlato di questa vicenda, come l’australiano Couriermail (che ha titolato: Dovrebbe essere OK uccidere i neonati).

La reazione dell’opinione pubblica alla notizia si è manifestata con insulti e minacce – certo condannabili – nei confronti degli autori, ma anche con giudizi di valore: se io avevo virgolettato ironicamente la parola etica con riferimento alla proposta, c’è chi ha parlato di Unethical arguments, mentre accademici di chiara fama in Italia e all’estero hanno paventato come me il rischio di eugenetica e filosofi e giuristi hanno espresso fermo dissenso.

In una lettera aperta i due autori hanno poi chiesto scusa a chi si era sentito offeso o minacciato dal loro paper, aggiungendo che il fraintendimento era stato generato dalla mancanza di loro precisazioni ma anche dal modo in cui la stampa aveva presentato quello che è solo uno studio teoretico-filosofico e non una proposta di legge. Tuttavia, leggendo i vari articoli e commenti (ante e post scuse), appare evidente che per lo più, anche quando chi li ha scritti ha richiamato principi giuridici, la teoria non è stata presentata come un progetto di legge, e che l’indignazione è stata suscitata dal fatto che qualcuno possa aver ragionato sull’infanticidio giustificandolo.

In risposta alle critiche, gli autori ed altri commentatori hanno richiamato il fatto che teorie simili sono state trattate negli ultimi quarant’anni da alcuni filosofi. Questo dovrebbe forse ridurre la responsabilità di chi ha continua a ragionare su questa ipotesi e divulgarla? O dovrebbe ridurre, oggi, lo sdegno verso la manifestazione di una simile idea?

Altri hanno sollevato la pretesa che una teoria bioetica possa essere criticata soltanto nel merito del ragionamento filosofico, quindi, mentre invocano la libertà di ricerca, vorrebbero porre un limite dialettico al diritto di critica. La richiesta è peraltro un tentativo di sviamento, dato che la teoria parte da alcune ipotesi assunte dagli autori come valide ma che basta non condividere per invalidare tutto il ragionamento. Inoltre sarebbe come pretendere che di una procedura medica, di un processo energetico o della formula di un farmaco venisse analizzato solo il rigore scientifico del metodo usato e non i possibili danni etici, umanitari, ambientali, etc.

Nel caso della teoria in questione, un rischio concreto di danno è che alcuni possano ritenerla una legittimazione per commettere un infanticidio. Altro rischio (per i neonati e, adottando i criteri usati dai due autori per definire la persona umana, anche per adulti inconsapevoli di sé, come i malati di Alzheimer) è quello dell’eugenetica.

Gli ambiti etico e giuridico sono legati a doppio filo: come lo Stato non può limitarsi ad enunciare i principi etici nella sua carta fondamentale e poi organizzarsi in modo antitetico a quei principi, ma deve assumersi la responsabilità di concretizzarli tramite leggi adeguate, specularmente i ricercatori di bioetica non possono pretendere di limitare la loro responsabilità alla correttezza formale del ragionamento o del metodo, ma devono valutare anche il possibile impatto delle conclusioni del loro lavoro speculativo sul processo normativo e sulla società.

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