Pieter Bruegel, La piccola torre di Babele

Siamo a fine luglio del 2011. Mentre i turisti affollano le spiagge salentine, poco distante da quei luoghi che ogni anno attraggono migliaia di persone, nelle campagne di Nardò, avviene qualcosa di straordinario. I migranti che ogni giorno raccolgono pomodori per pochi euro incrociano le braccia e decidono di dire no a uno sfruttamento cui soggiacciono per bisogno, da una parte, e per mancanza di strumenti, anche linguistici, che possano sollevarli dallo stato di marginalità in cui versano da sempre, dall’altra.

Il leader della contestazione è Yvan Sagnet, un ragazzo camerunense che studia al Politecnico di Torino e conosce quattro lingue; sarà lui a guidare un movimento che, al di là di qualsiasi giudizio di merito, pone una questione che poco viene affrontata dalle governances, e che, invece, alla luce delle nuove ondate migratorie e della globalizzazione, dovrebbe diventare il fulcro per la crescita dei nostri paesi. Multiculturalità o interculturalità?

Entrare in rapporto interculturale con un’altra cultura –come spiega bene Paolo E. Balboni ne Le Sfide di Babele – significa prendere atto della ricchezza insita nella varietà, non per proporre omogeneizzazione ma per raggiungere una piena e fluida interazione tra le diverse culture.

Al giorno d’oggi, però, sembriamo essere calati in un’altra realtà. In giro per le nostre città esistono migliaia di invisibili lavoratori immigrati, senza alcun diritto ma con tanti doveri, che, a causa della loro condizione esistenziale, si trovano costretti a un ruolo subalterno che comporta un arricchimento economico ma non – per continuare con le parole di Balboni- filosofico.

La tendenza va, infatti, verso la costruzione di società multiculturali improntate sulla tolleranza e, nel migliore dei casi, sul rispetto; società già costruite che non possono, né vogliono, essere messe in discussione, pagine già scritte – per usare un’espressione di Malouf– cui risulta impossibile aggiungere ulteriori parole.

Balboni, nella sua volontà di costruzione di una Babele aperta al contagio linguistico-culturale e alla pluralità di punti di vista, ci invita così a fermarci per un momento e a riflettere se crediamo davvero che lo sviluppo di una società debba essere soltanto economico, ossia basato sullo sfruttamento di una manodopera quasi per nulla sindacalizzata che, a causa dei pochi strumenti offerti dal nostro stesso paese, non sia in grado, anche dal solo punto di vista linguistico, di esprimere i propri pensieri e stati d’animo.

Forse, data la velocità che muove la nostra contemporaneità, dovremmo cominciare a lottare contro un’omologazione culturale che, giorno dopo giorno, prova ad abbracciare i migranti senza dar modo alle loro lingue e culture di confrontarsi con le nostre, ad ammettere – come ci suggerisce Gaffuri* – che “l’io è anche un altro per poter prendere atto che l’altro è anche un io”; forse dovremmo fare un passo avanti e riscrivere le pagine della nostra quotidianità, protendere verso la costruzione di società interculturali che, fondate sull’interesse e sulla volontà d’appropriazione di modelli culturali altrui ritenuti più validi, permettano la contaminazione di punti di vista, stili di vita, modi di concettualizzare la realtà differenti.

Meglio una pagina già scritta con inchiostro indelebile, non passibile di critica e correzioni, oppure una pagina con poche parole che vede l’alterità come il punto di partenza necessario per la propria stesura?

Claudia Rizzo, linguista e insegnante di italiano per stranieri

*Di Michele L., Gaffuri L., Nacci M.
Interpretare la differenza
Liguori Editore, 2002

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