Cultura

Wrecking ball, il nuovo Springsteen. Rabbia e pena nell’epoca della finanza globalizzata

Esce domani il nuovo album del Boss che torna ai temi sociali e ai diritti calpestati dal capitale globale. Tre tappe in Italia nel prossimo tour: Milano, Firenze e Trieste. Rispettivamente il 7, 10 e 11 giugno

di F. Q.

“Ora mi dici che il mondo è cambiato. Ora che ti ho reso abbastanza ricco da farti dimenticare il mio nome”. Sono le parole che nel 1995 Bruce Springsteen cantava pensando agli operai delle acciaierie di Youngstown, la cittadina cuore dell’industria pesante americana, che negli anni ha visto fabbriche e posti di lavoro volatilizzarsi o trasferirsi all’estero.

Erano gli anni del new world order immaginato da Bush padre dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il Boss metteva già il dito nella piaga della globalizzazione selvaggia e iniziava un discorso che a quasi diciassette anni di distanza si lega a filo doppio con il suo nuovo disco Wrecking Ball. Allora come oggi, potere politico e grande capitale distruggono la vita delle persone come una palla da demolizione distrugge un palazzo o uno stadio. Nessuno paga e tocca all’uomo della strada rimboccarsi le maniche e ricostruire. Ma scordatevi ideologie e luoghi comuni degli “ismi” novecenteschi: qui siamo in America.

L’ultima fatica di Springsteen è forse il suo disco più arrabbiato e diretto di sempre, pronto per infiammare gli stadi e le arene con il tour che partirà da Atlanta il prossimo 18 marzo e toccherà l’Italia passando per Milano, Firenze e Trieste il 7, 10 e 11 giugno. Un album che pesca a piene mani nella tradizione del folk, del gospel, persino dell’hip-hop, per parlare di ciò che è già successo e di certo succederà ancora e che la musica popolare da Woody Guthrie ai Run DMC ha saputo raccontare meglio di qualunque altra forma d’arte.

E proprio a Guthrie, Springsteen sembra pensare quando scrive “Il banchiere s’ingrassa, il lavoratore dimagrisce”, o quando in “Easy Money” descrive la coppia senza più un dollaro che decide di fare una rapina “imitando i pezzi grossi di Wall Street nell’unico modo che conosce”, come lui stesso ha dichiarato citando (involontariamente?) Brecht durante la presentazione parigina del disco alla stampa. E ancora in “Shackled and Drawn”: “Il giocatore d’azzardo lancia i dadi, il lavoratore paga il conto. È ancora grassa la vita sulla collina dei banchieri. Lassù è sempre una festa, qui siamo ammanettati e trascinati via”. Fino al protagonista di “Jack of all trades” che non nasconde il desiderio di avere una pistola per “sparare a quei bastardi”.

Nella seconda parte del disco la rabbia lascia spazio alla speranza. Speranza che ancora una volta risiede nella forza della comunità, del popolo, che per Bruce è l’anima e il cuore pulsante del Paese. Come nello strepitoso gospel “Rocky Ground”, forse la perla del disco o la conclusiva “We are Alive” che ruba il riff di fiati del classico di Johnny Cash “Ring of Fire”: “Mi hanno ammazzato in Maryland nel 1877, durante lo sciopero degli operai della ferrovia. Io sono stata uccisa una domenica mattina del 1963, a Birmingham, Alabama. Io sono morto l’anno scorso, attraversando il deserto oltre il confine… ma per favore, dite a tutti che siamo vivi… per combattere spalla a spalla e cuore a cuore”.

Passato negli anni – come insegna Flaiano – da giovane promessa a solito stronzo, oggi il Boss è senz’altro nello stadio finale del venerato maestro. Un ruolo conquistato anche in patria grazie soprattutto alla partecipazione attiva alle campagne elettorali di John Kerry prima e Barack Obama poi. Ma su questo fronte Springsteen fa un passo indietro: “Ci sono finito dentro quasi per caso. Gli anni di Bush erano così orribili che non potevo stare seduto a guardare, ma penso sinceramente che il ruolo dell’artista sia quello del canarino nella miniera, che fiuta il pericolo. È meglio stare a una certa distanza dal potere”. Non a caso in “We take care of our own”, il brano che ha anticipato l’uscita dell’album, Bruce vede “buone intenzioni ridotte all’osso”, dopo aver “bussato alla porta del trono”.

E proprio con l’uscita del singolo, in America si è a lungo parlato della possibilità che anche stavolta Springsteen potesse essere mal interpretato come accadde più di 25 anni fa per “Born in the USA”. Oggi come allora, una canzone il cui testo esprime la distanza tra la realtà e il sogno americano, rischia di diventare il simbolo di un’America muscolare e “pronta a fare da sola”. Ma il Boss non ci sta: “Scrivo con attenzione, precisione e chiarezza. Se non capisci il senso è perché non stai pensando abbastanza”.

È lo strano destino di Springsteen e della sua capacità di scrivere canzoni che sono orgogliosi inni alla compassione. Wrecking Ball è un disco per un paese (un mondo?) alla ricerca di pietà, amore e dignità del lavoro, ma allo stesso tempo consapevole che l’ultima risorsa per ogni uomo è quella di prendere il destino nelle proprie mani.

di Luca Raimondo

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