Accennavo nel mio ultimo blog alle potenzialità espansive del principio di autodeterminazione dei popoli applicato alle situazioni locali. Evidentemente non c’entra nulla, per rispondere alle argomentazioni  un po’  polemiche di un lettore di evidenti simpatie leghiste, né col presunto diritto all’obiezione fiscale né tantomeno con la pretesa di secessione. Il principio di autodeterminazione deve essere infatti bilanciato con altri principi come quello di solidarietà ex art. 2 della Costituzione e quello di unità nazionale ex art. 5 della stessa.  La prima di tali disposizioni impone a tutti  i cittadini di contribuire alle spese pubbliche, anzi, come precisa ulteriormente l’art. 53 della Costituzione “in ragione della propria capacità contributiva” e “secondo criteri di progressività”, il che fa sorgere grossi dubbi di costituzionalità, sia detto per inciso, su manovre che, come varie attuate di recente in Italia, puntino a sostituire la tassazione diretta con quella indiretta.

Quanto alla secessione, come ho sostenuto già quindici anni fa nel mio “La questione curda e il diritto internazionale”, il diritto alla stessa scatta solo in presenza di gravi violazioni dell’identità e del diritto alla partecipazione.

Rilevanti sono invece le implicazioni del diritto all’autodeterminazione dei popoli sul tema dell’utilizzo delle risorse locali, prima fra tutte il territorio. E’ il caso dei poligoni di tiro sardi e delle altre servitù militari imposte all’isola sulla base di un rapporto di tipo semicoloniale. Basti pensare al gravissimo danno ambientale e alla salute prodotto dal poligono di Quirra dov’è stato usato l’uranio impoverito e le onde elettromagnetiche prodotte dai radar hanno causato vari casi di tumore nella popolazione residente.

E’ il caso anche degli altri due poligoni di Capo Frasca e di Capo Teulada, Ma sono in totale ben trentacinquemila gli ettari occupati in Sardegna dalle servitù militari. Si concentrano cioè sulla bella isola ben l’80% delle aree del territorio italiano complessivamente destinate a scopi militari. Una situazione manifestamente sproporzionata e in contrasto con il principio dell’eguaglianza fra i cittadini. Fa piacere apprendere che sia stato un senatore del Pd, Gian Piero Scanu, a sollevare la questione. Evidentemente a volte questo partito, o quantomeno suoi esponenti,  riescono ancora a fare qualcosa di positivo…nonostante la loro posizione dissennata sulla Tav e su altri temi.

Nel caso delle servitù militari sarde, occorre aggiungere che andrebbe vagliata la compatibilità dei relativi accordi, conclusi in sede Nato o direttamente con gli Stati Uniti, con gli artt. 10 e 11 della Costituzione relativi al rispetto del diritto internazionale e al ripudio della guerra.

Come infatti giustificare un uso delle Forze armate non esclusivamente ispirato al principio della difesa del territorio nazionale in un momento nel quale la Nato non ha manifestamente più un ruolo da questo punto di vista? E che tipo di finalizzazione hanno le attività compiute nei poligoni e nelle altre aree della Sardegna gravate da servitù militari?

L’esempio della Val di Susa, dove una popolazione compattamente resiste e si ribella a un uso del proprio territorio non conforme ai propri desideri, andrebbe seguito anche in Sardegna e in altre parti d’Italia.

La Costituzione, suprema fonte giuridica del nostro ordinamento, è chiaramente dalla parte delle popolazioni in lotta per la difesa dei propri diritti, a fronte di un governo “tecnico” che si limita a biascicare come un karma ripetitivo e oramai inefficace, la necessità di rispettare i voleri dell’Europa o di altre potenze esterne. Si rispetti, innanzitutto, la volontà del popolo italiano, che quando ha modo di esprimerla, come nel caso del referendum sull’acqua, sa essere molto chiaro e determinato.

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