Si deve sentire molto sicuro, Sergio Marchionne, se decide di affrontare un’intervista molto diretta e puntigliosa con Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera – intervista di grido, molto ampia, in apertura del giornale – ma soprattutto se decide di calcare il tono arrogante con cui si rivolge, indirettamente, al sindacato, ai lavoratori e alla politica italiana. L’atteggiamento è netto: se Fiat non avrà quello che cerca, chiuderà due stabilimenti in Italia e, in ogni caso, la partita per la sopravvivenza si gioca sulla capacità di “esportare negli Stati Uniti”.

L’intervista è lunga, complessa (quando si sofferma minuziosamente sui bilanci del gruppo, sulle passività e sui programmi di investimento), ma alla fine ne resta nella memoria il messaggio più duro e crudo, la possibile chiusura degli impianti. Non è sicuro ma dipende, come è ovvio, dalla garanzie di competitività che l’Italia e l’Europa, compresa la valutazione dell’euro, sapranno dare. Però l’avvertimento è lanciato e costituirà un macigno all’interno delle vicende del gruppo (anche se Marchionne, citando La scelta di Sophie, rifiuta di dire quali sono gli stabilimenti a rischio). E non sembra un caso che l’intervista esca con tale evidenza proprio il giorno dopo la sentenza di Melfi che condanna, ancora una volta, la Fiat per comportamento antisindacale.

Gli stabilimenti che sembrano maggiormente minacciati sono quelli di Mirafiori e Cassino: il primo ormai chiuso quasi stabilmente per cassa integrazione e il secondo privo di un modello affidabile con un mercato di riferimento. Impossibile chiudere Pomigliano e difficile che la scelta cada su Melfi, che resta ancora uno degli impianti a più alta produttività della Fiat, forte della politica del “prato verde” che ne ha garantito l’avvio. Quanto alla Sevel di Atessa, si tratta di una società mista con Peugeot-Citroen e potrebbe essere prevista anche una cessione, ma si tratta di una produzione – il Ducato – che è tra le più redditizie.

Il punto è quello che Marchionne spiega al suo interlocutore, che invece lo incalza sui limiti tecnologici dei prodotti Fiat: “L’indebolimento dell’euro verso il dollaro aiuta, ma servono costi competitivi”. dice Marchionne. “Sa perché gli Usa funzionano con un costo orario del lavoro più alto di quello italiano? Perché si utilizzano in modo pieno e flessibile gli impianti. L’Italia deve tenerne conto”.
“Ma bisogna anche avere il prodotto. La Chrysler ha avuto la tecnologia Fiat…” chiede Mucchetti.
“Chrysler è tornata al profitto ristrutturandosi, e cioè con le sue forze”.

La ristrutturazione, il “bail out” pilotato – pochi sanno che le americane General Motors e Chrysler, all’atto del fallimento, hanno messo le attività inservibili in “bad company”, società destinata a socializzare le perdite come nel caso dell’Alitalia – la riduzione del costo del lavoro restano i meccanismi fondamentali per recuperare profitti e presenza sui mercati. Ed è questo il cuore del messaggio di Marchionne. Che si permette anche di strapazzare Landini e Camusso, definiti troppo “rigidi”, “politici” se non ideologici mentre con il loro predecessori, Rinaldini ed Epifani, “si poteva dialogare”. Un classico del modello padronale per sminuire la controparte.

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