Dopo la neve, è tornato il sole sulla panchina di piazza Santa Maria Liberatrice, a Testaccio, su cui  spesso mi intrattengo, quasi sempre a non fare niente. O meglio a guardare la vita che accade intorno. E a pensare a quel che capita. E’ in una mattina come questa, con il sole che batte forte anche se siamo a febbraio, che penso sia ora di farla finita: rientro in ufficio e comincio a rispondere alle tante persone che quotidianamente mi contattano per propormi idee, storie, sceneggiature, film già realizzati. Il guaio di uno come me, che ha deciso di non avere filtri e che pensa sia giusto ascoltare chi voglia proporre qualcosa, perché è da quelle parti che potrebbe nascere il cinema del futuro, è che si accumulano risposte non date, perché la vita è soltanto una e non basta.

Inizio a rispondere che per quest’anno non leggo più nulla. Basta. Ho troppi progetti in cantiere e la consapevolezza che molto probabilmente non se ne materializzerà nessuno. Perché gli altri, quelli che potrebbero far sì che almeno uno dei miei progetti si materializzi, intendo quelli della televisione o quelli delle distribuzioni o quelli tra i produttori più potenti, quelli che hanno delle strutture adeguate per dare risposte doverose, a uno come me tendono a non rispondere. Faccio un solo esempio, ma ne potrei fare dieci: a luglio dello scorso anno ho presentato a Raicinema la proposta di accompagnarmi nello sviluppo della sceneggiatura di due tra i circa venti nuovi registi che ho di fatto regalato al cinema italiano, scoprendoli facendo leva solo sulle mie forze il mio entusiasmo e il lavoro della gente che mi è venuta dietro. Ebbene, da allora, trascorsi otto mesi, non ho ancora ricevuto una risposta. E stiamo parlando della scrittura della sceneggiatura, non della realizzazione del film.

Ma io invece, stamattina, ho iniziato a rispondere, sostanzialmente dicendo no a tutti. Con grande sorpresa ho ricevuto in risposta ai miei no soltanto ringraziamenti, perché ricevere un no, in questo paese, sembra essere diventato comunque una conquista. Tornato sulla panchina di Testaccio, quella da cui mi piace vedere la strada in cui sono  nato, perché io, come dicevo orgogliosamente da bambino, “non sono nato a Roma, sono nato a Testaccio”, ho pensato un’altra cosa: non mi piace un paese in cui i ragazzi che hanno un sogno, che vogliono coltivare un sogno, siano contenti anche solo che uno gli dica che per il momento il loro sogno è congelato, non si può fare. Io voglio vivere in un paese in cui chi abbia un sogno non si debba risvegliare e possa andare avanti fino in fondo, fino all’ultimo respiro, e ancora un passo oltre, perché i sogni sono trasgressivi, sono vitali, sono necessari. E non conoscono pentimento e rassegnazione.

“Ma tu, al di là delle belle parole, che vuoi?”

Voglio urlare quello che non va. Voglio combattere e lottare. O forse, rispetto a questo che ho detto qui, semplicemente che chi non risponde se ne vada a casa e ci rimanga, come ho fatto io, alzandomi dalla panchina di Testaccio, quella da cui vedo la strada in cui sono nato.

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