Sono più o meno le otto di sera del 21 dicembre 2008 quando, nel corso del Tg1, compaiono in video il volto soave, tondeggiante e glabro del ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, accanto a quello barbuto e accigliato del direttore generale, Roberto Cecchi.

Scorrono le immagini del Crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo, appena venduto al Mibac da un antiquario torinese per più di tre milioni, e i due ospiti si alternano per illustrare agli italiani la bontà dell’acquisto: “Abbiamo ritenuto di doverlo acquisire – spiega Bondi dalla voce di miele – in modo da evitare che potesse essere acquistato da altre persone o istituzioni private, non soltanto italiane ma anche internazionali“.

E sì che il pericolo non pareva imminente: non c’era la fila per accaparrarsi la scultura, né in Italia (nel 2006 la Cassa di Risparmio di Firenze aveva già detto no all’acquisto dall’antiquario Gallino per le perplessità di Mina Gregori), né all’estero, dove studiosi come Lisner, Beck, Wallace si sono espressi con scetticismo sull’attribuzione.

Concluso il turno del ministro, la giornalista si rivolge al direttore barbuto: “Dottor Cecchi, a chi apparteneva questo crocifisso e come si è arrivati all’attribuzione a Michelangelo?”

Il direttore pesa le parole, serio e autorevole: “Questo crocifisso apparteneva, quando l’abbiam comprato, a un antiquario torinese, ma la derivazione è sicuramente fiorentina”. Lui è sicuro, gli italiani gli devono credere e pazienza se non li mette al corrente dei fatti su cui fonda le sue sicurezze.

Eppure c’è un aspetto curioso in questa storia della derivazione del Cristino, perché è sì sicura, ma allo stesso tempo è misteriosa. Gli italiani che hanno letto qualche giorno prima sulla Stampa.it le parole della soprintendente al Polo Museale Fiorentino, Cristina Acidini, hanno già avuto modo di apprezzare questa singolarità. Per il Cristino di legno di tiglio, ha spiegato la soprintendente,  “continuiamo a usare la formula ‘attribuito’ in quanto non abbiamo un documento di riferimento, per cui la sua provenienza è misteriosa”. Ma il mistero diventa subito un po’ meno misterioso. La soprintendente aggiunge infatti che Il Cristo Crocifisso “proviene da una famiglia fiorentina”. Respiro di sollievo? Nemmeno per sogno perché il mistero si rifà anche più fitto quando Acidini dichiara che della famiglia “non conosciamo il nome”.

Anche il professor Gentilini, dell’Università di Perugia, parlando al Messaggero, non si sbottona troppo: “Il capolavoro acquistato oggi dallo Stato da un antiquario torinese proviene dalla collezione di un mercante fiorentino, che a sua volta lo aveva comprato da una famiglia che lo conservava nel suo palazzo in città da varie generazioni: un indizio importante per l’autografia michelangiolesca”.

Sarà che forse l’antiquario Giancarlo Gallino si era dimostrato avaro di notizie sulla provenienza dell’opera che desiderava vendere. Non sarebbe stata la prima volta. In passato, al pm che lo interrogava in qualità di indagato per tentata truffa (accusa subito caduta) in occasione della trattativa con il comune di Torino per la vendita di un altro crocifisso, in quel caso del Giambologna, l’antiquario si era avvalso della facoltà di non rispondere sull’identità di chi gliel’aveva venduto e sull’entità della somma sborsata. L’avvocato Fulvio Gianaria, che lo assisteva, interpellato dai giornalisti, spiegò che il suo assistito riteneva di essere vincolato dall’obbligo della riservatezza nei confronti della famiglia che gli aveva ceduto il crocifisso, ma che aveva comunque ricostruito al pm la storia del pezzo.

Anche in quell’occasione apparve stravagante non tanto il comportamento dell’antiquario che, cercando di vendere al prezzo più alto, stava solo facendo il suo mestiere, quanto la superficialità degli acquirenti.

A questo proposito, all’epoca, Marco Travaglio raccontava: “Il documento di dieci pagine firmato dal procuratore aggiunto Maurizio Laudi e dal sostituto Cristina Bianconi, al termine di nove mesi di indagini, è politicamente peggio di una requisitoria (…) sul conto della giunta comunale, e in particolare dell’assessore alla Cultura Ugo Perone e del Comitato tecnicoscientifico, che un anno fa suggerì l’acquisto del crocifisso per la ragguardevole cifra di quattro miliardi e duecento milioni: cioè a un prezzo quattordici volte superiore a quello di trecento milioni pagato da Gallino nel ’92 quando, come hanno appurato le indagini dell’ispettore Salvatore Neglia, acquistò l’opera dalla famiglia Villa di Bergamo. «La trattativa fra il privato (Gallino, ndr) e il Comune – scrivono i pm – fu sconsideratamente superficiale, in quanto priva di qualsivoglia supporto documentale». In pratica, l’assessore e i suoi incauti consiglieri non avrebbero acquisito alcuna documentazione sulla provenienza e sul valore del crocifisso, né presso il gallerista proprietario (che pure la possedeva), né presso altri esperti “fuori dal giro”, prima di suggerirne l’acquisto: lo fecero soltanto dopo l’approvazione della delibera comunale, quando esplosero le polemiche e furono aperte le indagini penale e amministrativa”.

E’ significativo che, a distanza di anni, appunti simili vengano mossi oggi dalla Corte dei Conti per la vicenda del Cristino Gallino: omissioni “sulla storia e provenienza del bene”, mancata acquisizione “di un più ampio riscontro critico sull’attribuibilità dell’opera”, assenza di motivazioni sul “corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale” (vedi Il Fatto di oggi a pagina 18).

Al valore dell’opera il direttore Cecchi aveva accennato anche quella sera al telegiornale: “Il valore dell’opera è abbastanza complesso – diceva, nel tentativo di metterci al corrente, almeno per sommi capi, di un processo decisionale lungo e meditato – ma sostanzialmente gli argomenti su cui si è fatto leva per riconoscerne il valore sono sostanzialmente tre”.

A questo punto vale la pena di passare all’ascolto diretto dei tre argomenti sostanziosi, per non perdere l’effetto di una voce suadente e ben modulata. Poi, però, dopo aver preso qualche appunto, chiedetevi se in base a tanta sostanza, avreste ritenuto opportuno sottrarre più di tre milioni al magro bilancio del Ministero. Forse no.

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