La Grecia è davvero unica: per la lenta crescita pre-euro, per l’accelerazione drogata prima della crisi e per l’entità del declino post-crisi. Un’uscita dall’euro porterà nel migliore dei casi al ritorno alla crescita precedente al 1997. Se invece il paese intraprende le riforme a lungo rinviate potrà sperare in una vera modernizzazione dell’economia. A patto che l’Europa riconosca che, oltre al taglio dei salari, occorre anche migliorare le infrastrutture materiali e umane con il contributo fondamentale di aiuti europei e di una cancellazione parziale del debito.
di Francesco Daveri, 14.02.2012, lavoce.info

Lo ha detto Mario Draghi. “La Grecia è unica”. Purtroppo non si riferiva alla bellezza del Partenone o delle sue isole. Voleva dire che, se l’Unione Europea approverà il Fiscal Compact nella riunione dei capi di Stato di marzo 2012, metterà al sicuro i conti pubblici degli Stati dell’eurozona e potrà quindi permettersi di salvare la Grecia senza pregiudicare il rispetto del rigore di bilancio – principio irrinunciabile di una potenziale Unione fiscale europea. Non tutti la pensano come lui: molti – in Germania ma non solo – credono che salvare la Grecia con soldi europei sarebbe una scelta sciagurata che finirebbe per inghiottire l’euro in un vortice di default successivi, a cominciare dal Portogallo per continuare con l’Irlanda e poi chissà. E invece se si guarda a qualche dato che va un po’ indietro nel tempo si vede che Draghi ha molte ragioni dalla sua.

La Grecia di una volta non cresceva
C’è una data da cui partire per capire il dramma greco, gli scontri e le fiamme di piazza Sintagma e gli interventi concitati dei membri del Parlamento greco mostrati dalle tv di tutto il mondo. La data è il 5 settembre 1997. Quel giorno il Comitato olimpico internazionale, nella sua 106esima sessione tenuta a Losanna, stabilì che i Giochi olimpici del 2004 si sarebbero tenuti di nuovo ad Atene, per la prima volta dal 1896, cioè da quando hanno ricominciato a svolgersi le Olimpiadi dei giorni nostri. Dopo 108 anni, cioè, le Olimpiadi tornavano a svolgersi nel paese dove erano nate.

Fino a quel momento, il Pil greco – il totale dei redditi prodotti nell’economia greca – era cresciuto a un tasso relativamente moderato: dell’1,7 per cento annuo circa, a partire dal 1970. Nello stesso periodo, gli altri paesi con reddito pro-capite relativamente basso nel Mediterraneo – tutti impegnati a rincorrere il tenore di vita del nord Europa – crescevano ben più rapidamente: del 2,5 per cento l’anno Spagna e Italia e addirittura del 3 per cento il Portogallo. Se alla fiacca crescita del Pil si aggiunge poi una dinamica demografica più da paese in via di sviluppo che da paese europeo (+0,7 per cento l’anno di crescita della popolazione), viene fuori che per 27 anni i greci si sono trovati con una crescita del loro tenore di vita – misurato dall’aumento del Pil, pro-capite – vicina all’1 per cento l’anno. A causa di questa fiacca dinamica, nel 1997, nel momento in cui il Cio assegnava al governo di Atene il compito di organizzare i Giochi olimpici, il reddito pro-capite di un cittadino greco era superiore a quello del 1970 solo del 30 per cento. Nello stesso periodo, i redditi degli spagnoli e gli italiani erano quasi raddoppiati (+95 per cento rispetto al loro livello del 1970); e per i portoghesi più che raddoppiati (+120 per cento rispetto a 27 anni prima). Insomma, ancora nel 1997, quella greca non era una società stazionaria, ma quasi. I tanti italiani che hanno passato le loro vacanze trasportati da barche disastrate sulle meravigliose ma un po’ rurali isole greche in quel periodo hanno un ricordo che non differisce molto dall’arido quadro fornito dalle statistiche.

Olimpiadi + Euro: una benedizione?
Con l’assegnazione delle Olimpiadi la società greca nel suo insieme vede la possibilità di una svolta modernizzatrice. E alla possibilità di modernizzazione data dal treno delle Olimpiadi – quello che passa ogni 108 anni – si accoppia un’altra opportunità potenzialmente da sfruttare: l’euro. Proprio in quegli anni, una parte consistente dell’Europa si stava dotando di una valuta comune, tra l’altro in un quadro mondiale in cui – chi più chi meno – ci si poteva avvalere dei primi frutti della rivoluzione di Internet accoppiata con la finanza globale.

Da quel momento molte cose cambiano nella società e nell’economia greca. A partire dal 1997, la spesa pubblica si avvia a crescere in modo incontrollato, alimentando investimenti pubblici di dubbia utilità e sostenibilità. La rapida riduzione del costo del credito indotto dall’aspettativa dell’entrata nell’euro alimenta gli investimenti privati. Magicamente (ma non troppo, a pensarci) la crescita del Pil pro-capite greco accelera notevolmente. Nel 1997-2008 triplicherà rispetto ai trent’anni precedenti al 3,2 per cento annuo, anche agevolata da un rallentamento della dinamica demografica, grazie alla diminuita crescita della popolazione (da +0,7 a +0,2 per cento annuo). E così il miglioramento nel tenore di vita, quasi assente per tanti anni, diventa d’un tratto un elemento molto tangibile per la società greca.
Il reddito pro-capite aumenta del 50 per cento in poco più di 10 anni, dopo che c’erano voluti 27 anni per aumentarlo solo del 30 per cento. Viene il momento della riscossa nei confronti degli altri paesi dell’Europa mediterranea che nello stesso periodo sperimentano tutti una crescita inferiore: la crescita si dimezza rispettivamente a +1,5 e +1,3 per cento per Portogallo e Spagna e quasi si azzera a un modesto +0,4 per cento per l’Italia.

Ma la riscossa è di breve durata. E il bagno di realtà successivo particolarmente drammatico. Quando arriva la crisi del post-2008, nessun paese se la passa bene in Europa. Nel 2009-11, però, il Pil pro-capite greco scende più di tutti, del 4,5 per cento annuo, mentre in Spagna e Italia il calo è “solo” del 2 per cento e in Portogallo dell’1,5 per cento. E arrivano la troika (Commissione europea, Fmi e Bce) e gli scontri e le fiamme di piazza Sintagma. Mentre la grave crisi nel resto dell’Euro-Med avviene in presenza di limitati conflitti sociali.

Morale della storia
Nel Mediterraneo, cioè tra i paesi oggi ritenuti a rischio di bancarotta, la Grecia è unica: per la sua lenta crescita pre-euro, per l‘accelerazione drogata della sua crescita prima della crisi e per l’entità del suo declino post-crisi. Le proteste dei manifestanti di Sintagma – e più in generale della società greca – sembrano il prodotto del rifiuto della dura medicina imposta dalla troika sull’economia greca. Ma sono anche il risultato delle aspettative di benessere sollevate dal decennio di rapida crescita 1997-2008 e poi – è il caso di dirlo – bruciate negli ultimi tre anni. Una crescita figlia di eventi non ripetibili come le Olimpiadi. E anche di decisioni non sostenibili – come l’ingresso nell’euro – da parte di un’economia come quella greca che esporta solo il 7 per cento del proprio Pil e non è in grado di produrre rilevanti entrate fiscali dalla principale ricchezza del paese, cioè il turismo, a causa di un’evasione fiscale anche più endemica di quella italiana.

Dopo dieci anni di crescita ininterrotta, anche una piccola recessione è difficile da accettare, figuriamoci un tracollo del Pil come quello sperimentato dai greci negli ultimi tre anni. Ma i dati di lungo periodo ci dicono anche che, se la Grecia rifiuta di intraprendere le politiche della troika e dunque in un modo o nell’altro lascia l’euro, il meglio che i cittadini possono aspettarsi è di ritornare alla crescita precedente al 1997: +1 per cento l’anno. Non c’è insomma il regno del Bengodi ad aspettarli là fuori dall’euro. Se invece il paese decide di intraprendere le riforme a lungo rinviate, rimarrà nell’euro e subirà il vincolo del cambio, ma potrà sperare di rilanciare la crescita con una vera modernizzazione dell’economia. Sempre che l’Europa capisca una lezione di base: che un rapporto debito-Pil al 120 per cento – il punto di arrivo dell’attuale strategia di riduzione del debito greco nel 2020 – è un’incudine troppo pesante per rilanciare la crescita. Lo è anche in paesi molto più solidi della Grecia e lo è a maggior ragione in un’economia oggi debole e provata come quella greca.

Malgrado tutto, però, non è troppo tardi per rimediare agli errori del passato. I greci possono impegnarsi a ridurre il peso del loro settore pubblico e ad accrescere la loro competitività con politiche di moderazione salariale. Il resto dell’Europa deve però riconoscere che, per ritornare a crescere, ai greci non basterà tagliare i salari ma occorrerà anche migliorare le infrastrutture, materiali e umane, del paese con il contributo fondamentale di aiuti europei e di una cancellazione del debito – parziale ma più sostanziale di quella prevista finora. Il tutto condizionato alla prosecuzione delle riforme oggi rifiutate in piazza Sintagma.

*E’ professore ordinario di Politica Economica presso l’Università di Parma. Ha collaborato con la Banca Mondiale, il Ministero dell’Economia e la Commissione Europea.

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