Ancora negli ultimi giorni qualcuno si ostina a pensare che la Grecia sia come l’Argentina. Che dopo questo default «controllato» anche il Paese ellenico possa miracolosamente risorgere. Che, addirittura, un ritorno alla dracma sarebbe per Atene il toccasana ideale, come l’abbandono della parità con il dollaro da parte del peso argentino fu la ragione principale della svolta in quel di Buenos Aires.

Peccato, ma non è cosi’ facile. Già ora il debito greco supera il 160% del Pil, il Prodotto interno lordo: tre volte la quota dell’Argentina prima della svalutazione. Figurarsi cosa avverrebbe se la Grecia abbandonasse l’euro. Altro elemento: il debito argentino era assai disperso, spalmato praticamente a livello mondiale, con tanti illusi che avevano investito in quel nuovo «Eldorado» nei Paesi più diversi. Nel caso della Grecia, invece, l’esposizione è concentrata nelle già traballanti banche europee. E in quelle francesi soprattutto. Una bancarotta totale di Atene avrebbe una forza d’urto terribile.

La Grecia puo’ rinascere come l’Argentina? Andai a vivere a Montevideo, in Uruguay, nel 2003, appena un anno e mezzo dopo il default di Buenos Aires. E iniziai a viaggiare ogni mese in Argentina, proprio per scrivere articoli su quel Paese alle prese con il dopo bancarotta. Il 2003 fu, da un certo punto di vista, l’anno peggiore, quello della discesa agli inferi, dell’esaurimento dei risparmi e delle scorte per tante famiglie. Quasi la metà della popolazione era ormai povera: compresa una buona porzione di quel ceto medio, colto e laborioso, che era stato l’orgoglio del Paese. Ma il 2003 fu anche l’anno nel quale l’economia, una volta colpito il fondo, seppe ripartire. Da allora non si è fermata più.

Ho un ricordo preciso: il porto di Mar del Plata nell’ottobre 2003. Negli anni precedenti, a causa dello stupido e irreale cambio di un peso a un dollaro, non era più redditizio per i pescatori di Mar del Plata, quasi tutti originari della Sicilia, andare a lavorare. Negli anni avevano lasciato colare a picco le loro imbarcazioni nel fondo del mare antistante. Ma in quel freddo autunno del 2003, con un dollaro a tre pesos, quei pescatori ridiventarono competitivi. Cominciarono a recuperare i propri scafi dall’acqua per restaurarli. Era tutto un rumore assordante di martelli, un brusio continuo. Alla fine ripartivano dritti verso l’oceano. A pescare di nuovo, finalmente.

L’Argentina poteva vendere i suoi prodotti a un mercato come quello brasiliano, già in forte espansione. E a tutto un Sudamerica, che aveva messo alle spalle la crisi. Non solo pesce. Anche i settori dell’industria manifatturiera, come il farmaceutico, la meccanica o quello delle scarpe, risollevarono la testa, grazie alla volontà di riscossa di tante piccole e medie imprese di argentini, spesso di origini italiane, pronti a sfruttare qulla svalutazione competitiva. Ma soprattutto la rivincita del Paese avvenne grazie alla simultanea crescita delle quotazioni internazionali delle sue derrate agricole, soja in primis, per la domanda sempre più forte da parte dei cinesi.

Oggi l’Argentina è un altro Paese. Ancora con tanti poveri, ma molti meno di allora. Un’economia che l’anno scorso è cresciuta di oltre il 9%. Con l’unico problema di non poter accedere, neppure adesso, ai capitali internazionali, per la sfiducia generata da quel default di dieci anni fa. Ma chi se ne frega: per il momento non ne ha bisogno.

Tutte le condizioni viste sopra non si verificano in Grecia. Che non produce soja o materie prime. Che non ha un tessuto di piccole e medie imprese tale da poter sfruttare  un’eventuale svalutazione (nel caso di un malaugurato ritorno alla dracma). Che non ha accanto un Brasile pulsante da inondare dei suoi prodotti.

La Grecia (sfortunatamente) non è l’Argentina.

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