Dopo gli scivoloni del presidente Monti e della ministra Cancellieri sul «posto fisso» e sul fatto che i giovani preferiscano un lavoro vicino a mamma e papà, ieri sul Corriere Renato Mannheimer ha presentato i risultati di una ricerca del suo istituto, da cui emergerebbe un’immagine dei giovani fra 18 e 34 anni che conferma appieno i pregiudizi espressi dal governo. Poiché la ricerca completa non è stata pubblicata, devo attenermi alla sintesi di Mannheimer:

«Alla richiesta di scegliere qual è l’aspetto più importante in una occupazione, più di uno su tre cita senza esitazione il “posto fisso” che risulta contare assai più dello stipendio e ancor più dell’interesse del tipo di lavoro. […]

Questi orientamenti sono confermati anche dalle risposte al quesito relativo alla preferenza tra un lavoro “sicuro anche se meno redditizio” e uno “meno sicuro con più prospettive di reddito”: quasi nove giovani su dieci (per l’esattezza l’84%) optano senza esitazione per la prima alternativa. […]

Di qui una netta (per il 75%, con una diminuzione, comunque, rispetto a due anni fa quando era l’84%) predilezione per un mercato del lavoro “meno flessibile, con meno possibilità di licenziamenti, anche a costo di stipendi più bassi” piuttosto che uno “più flessibile, ma che favorisce stipendi più elevati”. Invece solo poco più di metà (56%) dei giovani italiani dice sì all’idea di un posto di lavoro, anche se fisso, in un altro Paese europeo: l’apertura appare molto maggiore tra i giovanissimi fino a 24 anni, mentre si attenua, forse a causa di famiglie già formate, tra chi ha tra i 25 e i 34 anni. È curioso notare che la disponibilità a trasferirsi appare relativamente più elevata tra chi possiede un diploma di scuola media superiore. I laureati, invece, forti del loro titolo di studio, appaiono paradossalmente più restii a spostarsi.

Questa è, dunque, la cultura del lavoro prevalente nelle nuove (ma anche nelle vecchie) generazioni del nostro Paese..»

Ora, è chiaro che, in un momento in cui tutti soffiano sul fuoco dell’incertezza e della paura, se chiedi a qualcuno: preferisci un posto «sicuro anche se meno redditizio» o uno «meno sicuro con più prospettive di reddito», questo qualcuno è molto probabile che scelga la prima alternativa. Ma siamo sicuri che non otterremmo la stessa risposta anche in altre fasce d’età, ben oltre i 18-34 anni? Sicuri che non risponderebbero così tutti coloro che vedono a rischio il loro posto di lavoro, indipendentemente dall’età che hanno? Io non lo sono, e nemmeno Mannheimer lo è, visto che mette fra parentesi «ma anche nelle vecchie generazioni».

E aggiungo: in un quadro di incertezza globale sempre maggiore, non solo italiana, siamo sicuri che la scarsa propensione a muoversi che esprimono i 18-34enni che hanno riposto al questionario non sia frutto, invece che di mammoneria, di una valutazione razionale del fatto che, poiché anche all’estero le cose non vanno meglio, tanto vale restare in Italia?

Insomma sono perplessa, perché l’articolo sembra confermare troppo facilmente i pregiudizi sui «bamboccioni». Quasi volesse giustificare gli ultimi scivoloni del governo. Ovviamente, prima di giudicare, vorrei vedere la ricerca completa. Ma nel frattempo mi chiedo: a chi e cosa serve confermare di continuo questa rappresentazione recessiva e deprimente dei giovani italiani? Sugli stessi toni, pur mitigati dal pentimento finale, è l’articolo di Ilvo Diamanti oggi su Repubblica.
A cosa serve tutta questa insistenza, se non a frustrare ulteriormente i giovani, a convincerli che non valgono nulla? Perché si continua a farlo? Io per mestiere incontro tutti i giorni ventenni che contraddicono questo stereotipo. Vivo e lavoro in una bolla fortunata?

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