Dovevano essere le primarie per fare le scarpe alla Vincenzi. Ma alla fine le scarpe quelli del Pd se le sono fatte da soli.

Marco Doria ha vinto. Con un margine nettissimo: 46%, contro il 27,5% di Vincenzi e appena il 23,6 di Pinotti che era data per favorita ed era appoggiata dall’establishment. Genova oggi non pare più la stessa. Rimane rossa, ma addio partito.

Nessuno lo avrebbe detto fino a ieri, quando, muovendosi per i seggi, vedevi, sentivi ovunque il nome di Doria. Si sono sbagliati i partiti, i sondaggisti, i cronisti (compreso il sottoscritto).

Una vittoria che colpisce proprio perché Doria non ha usato, anzi, ha consapevolmente ignorato i mezzi della politica classica: la demagogia, le comparsate, gli slogan, al contrario, è arrivato a pronunciare frasi apparentemente kamikaze. Come quando ha ipotizzato di alzare le tasse.

Ma è stato questo (paradossalmente, ma fino a un certo punto) il suo segreto, l’aver respinto i mezzi della vecchia politica. L’aver puntato sulla conquista della fiducia. Adesso dovrà voltare pagina dopo 65 anni di potere di centrosinistra. E dovrà farlo restando a sinistra. È questa la grande sfida che gli elettori gli chiedono. Perché Genova non ha cambiato ideali, ma è evidentemente stufa del sistema di potere che da anni, decenni, la governa. Che occupa ogni poltrona e strapuntino rimasto libero. Che cementifica ovunque favorendo gli amici degli amici e, come hanno rivelato i rapporti della Dia, aprendo le porte alla ‘ndrangheta. Un blocco che parte dal centrosinistra, non trascura il centrodestra e arriva a blandire ambienti della Curia. Insomma, tutti. Esclusi, come dimostrerebbe anche il risultato di questo voto, i genovesi.

Doria finora ha avuto parole chiare. Una delle sue prime dichiarazioni dopo il voto è stata questa: “Basta cementificare Genova”. Speriamo che adesso resista, perché le pressioni dei partiti del centrosinistra per appropriarsi della vittoria di quest’uomo e dei suoi sostenitori saranno grandissime. Ma la credibilità di Doria dipenderà da questo, dalla sua capacità di scegliersi una squadra che non sia una raccolta di figurine delle vecchie glorie della politica locale imposte dai partiti. Gente che popola le cronache da tre decenni. A Genova servono figure nuove, giovani, non solo anagraficamente. Doria oggi ha la forza per imporsi.

Intanto nel Pd comincia la resa dei conti. I vertici hanno annunciato che si sarebbero dimessi se avesse vinto Doria. Sembra ovvio: il Pd aveva il sindaco e se lo è giocato. È riuscito a perdere contro se stesso. “Forse abbiamo poca paura di perdere”, ha detto il sindaco Vincenzi. Che ha fatto degli errori, che soprattutto non ha saputo proporre una sua classe dirigente all’altezza. Ma, a detta di molti, non è stata un cattivo sindaco, almeno perché aveva cercato di contrapporsi un po’ alla nomenclatura del partito. Le è costato caro.

Ma Genova volta pagina. E fedele al suo carattere di città schietta, concreta, non si è curata della battaglia scintillante tra le due prime donne, a suon di articoli sulle mise e le acconciature, su Roberta che faceva la maratona e via dicendo. Ha puntato invece su Doria. Contro ogni pronostico, contro il vecchio partito mamma (matrigna?), ha votato però un comunista. E così le primarie non si sono lasciate piegare ai giochi di potere e sono diventate, malgrado i partiti, prova di democrazia.

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