Giacomo Puccini con Madama Butterfly non ha scritto solamente un’opera meravigliosa: ha costruito un personaggio che, da solo, vale più di un trattato di filosofia dell’attesa e del dolore. Butterfly sapeva che il suo Pinkerton sarebbe tornato, forse non per restare a Nagasaki con lei, ma almeno a riprenderla insieme al loro bambino per portarli con sé. Aveva di bello Butterfly che ci credeva davvero.

Puccini scrisse forse cinque versioni di questa Opera. Al suo primo debutto alla Scala nel 1904 non fu proprio un successone. Addirittura qualcuno scappò via dal Teatro durante il secondo atto. Sappiamo che Puccini, all’epoca della composizione di Madama Butterfly stava studiando le partiture dell’ Après-midi d’un faune e di Nocturnes di Debussy, era andato a Parigi per assistere alla prima rappresentazione di Louise di Charpentier. Stava cercando “nuove forme”, sentiva il demone dell’immobilità musicale aleggiare come un corvo sulla sua testa. Proprio con Madama Butterfly rintracciamo le scintille della sua ricerca. E quel finale, poi: una cadenza in Si Minore che culmina in un inaspettato Sol Maggiore che ti lascia senza fiato, incollato a pensieri lontani e alla poltrona. Un finale che sigilla l’apice del genio compositivo di Puccini, la vetta che non sfiorò forse nemmeno con Tosca o con le invocazioni alla luna di Turandot.

Dal 21 al 28 febbraio verrà rappresentata al Teatro dell’Opera di Roma, direttore d’orchestra Pinchas Steinberg, mentre Daniela Dessì ed Elena Popovskaya si alterneranno nel ruolo di Cio-Cio-San (Madama Butterfly). E chi preferiva la Callas, chi la zuccherosa Tebaldi, chi dice che Madama Butterfly è l’opera popolare per eccellenza, chi storce il naso sempre e comunque, chi la ama in ogni allestimento e versione, chi non la considera nemmeno tra le opere di rilievo. Io dico solo che non si può non conoscerla.

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