Sarà la precarietà strutturale di un esecutivo destinato a scadere nel 2013, oppure la necessità di piegare i sindacati nel negoziato sul lavoro: il governo Monti non riesce a smettere di denunciare “l’illusione del posto fisso”. Ieri se ne è occupata Anna Maria Cancellieri, ministro dell’Interno, che non sarebbe competente in materia ma al Tgcom 24 ha esternato: “Noi viviamo nella cultura del posto fisso. Il mondo sta cambiando, come avviene nei Paesi emergenti. Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città di fianco a mamma e papà”. E pensare che lo scopo della Cancellieri era chiarire una “querelle frutto di una fretta d’interpretazione” dopo la battuta di Mario Monti, a Matrix, cinque giorni fa. In effetti la visione del governo si è chiarita, perché se Monti denunciava la “monotonia” di fare lo stesso lavoro tutta la vita, la Cancellieri lo considera già archiviato (pur avendone ampiamente approfittato, essendo un prefetto in pensione). Anche il ministro del Welfare Elsa Fornero invita alla rassegnazione: “Bisogna spalmare le tutele su tutti, non promettere il posto fisso che non si può dare. Questo vuol dire fare promesse facili, dare illusioni”.

Si possono dare due letture di queste dichiarazioni. La prima: sono errori di comunicazione, che ricadono nella categoria delle gaffe. Come quando Corrado Passera chiama Elsa Fornero “Emma” (evocando la Marcegaglia, con cui è più in confidenza) o quando un comunicato ufficiale della portavoce del premier Elisabetta Olivi annuncia la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, in realtà bloccata dalle lobby.

Seconda opzione: non sono gaffe, ma lapsus. Non bisticci linguistici ma sprazzi di verità, squarci nell’autocontrollo tecnico che tradiscono come la pensano davvero i ministri. Un po’ come quando il ministro Corrado Clini, appena insediato, arringa il pubblico di Un giorno da pecora, su Radio 2, sui benefici del nucleare. O quando il viceministro del Welfare, Michel Martone, apostrofa come “sfigati” i giovani che ci mettono dieci anni a laurearsi, senza fare alcun distinguo tra i “bamboccioni” (copyright Tommaso Padoa-Schioppa) e gli studenti-lavoratori.

Nel caso della Fornero queste dichiarazioni hanno un valore programmatico. Il dibattito con i sindacati sta andando in questa direzione: per i giovani contratti di tre anni, durante i quali non vale l’articolo 18, poi, se l’azienda ne ha voglia, l’assunzione a tempo indeterminato, forse qualche ammortizzatore sociale (se si riesce a riformare la cassa integrazione straordinaria) ma non subito, perché c’è la crisi. Le prospettive, quindi, non sono granché: il posto fisso già da tempo non è più a portata di mano per i giovani. Secondo l’osservatorio Datagiovani, nel 2011 tre su dieci dei 454 mila ragazzi alla prima occupazione hanno avuto un orario parziale. La percentuale sale al 43 per cento per le donne. Non lo fanno per scelta, ma perché le aziende offrono solo quello. Sono ovviamente i primi a pagare se le cose vanno male: nell’ultimo anno il part time si è ridotto dal 12 al 6 per cento tra gli under 24, mentre è cresciuto del 23 nella fascia d’età 45-54 (il tempo parziale è usato per ridurre il costo per l’azienda, e dunque il salario). E secondo l’Istat sette assunzioni su dieci nel periodo 2005-2010 sono state a tempo determinato.

Il posto fisso è dunque già archiviato, non c’è bisogno di infierire. Lo scopo del governo è infatti, pur con risultati disastrosi dal punto di vista della comunicazione, presentare il lato positivo della flessibilità. Su lavoce. info due economisti, Marco Leonardi e Giovanni Pica, hanno scritto: “La maggiore stabilità non è gratuita. Un aspetto spesso ignorato dei costi di licenziamento consiste nella possibilità che le imprese li aggirino facendoli pagare ai lavoratori attraverso minori salari. Un’analisi della riforma del 1990 mostra che la legge ha ottenuto gli effetti previsti: alzando i costi di licenziamento sulle piccole imprese ne ha ridotto i licenziamenti, ma anche le assunzioni”. I tecnici muovono da questa premessa, convinti che modificare l’articolo 18 sul reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, serva a incentivare gli investimenti e perfino a far salire gli stipendi. Se si sbagliano il conto lo pagheranno, come sempre, i nuovi assunti. Cioè i giovani.

Il Fatto Quotidiano, 7 febbraio 2012

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