Uno striscione giallo con una scritta nera: Putin vattene! E la silhouette del viso dello Zar cancellata con una X. Ieri lo striscione da 140 metri quadri è rimasto alcune ore appeso nel gelo moscovita, sul tetto di un edificio sulla riva del fiume Moscova, proprio di fronte alle mura rosse del Cremlino, prima di essere rimosso da un gruppo di poliziotti. L’azione di “guerriglia mediatica” è stata “rivendicata” dal gruppo Solidarnost (Solidarietà), uno dei nomi della galassia dei movimenti politici e sociali contrari a Zar Vladimir. Dal rinvigorito Partito comunista fino ai movimenti per la difesa dei diritti umani e a quelli contro la corruzione, sono in molti ad aver rialzato la testa dopo le contestatissime elezioni parlamentari dello scorso dicembre. Allora, il partito del duo Vladimir Putin-Dimitri Medvedev perse la maggioranza relativa dei voti e riuscì a tenere la maggioranza della Duma, la camera bassa del Parlamento federale russo, solo grazie a quelli che gli osservatori internazionali hanno qualificato come “intromissioni” nel processo elettorale e “irregolarità diffuse”. Un modo gentile per dire brogli. La sconfitta, peraltro, è stata più sonora nelle città, vera “bestia nera” per il Cremlino e laboratorio della nuova protesta creativa (dai social media agli striscioni), che si affianca a quella più tradizionale dei cortei e delle manifestazioni di massa.

Dopo quella risicata vittoria, per la prima volta da molti anni, decine di migliaia di cittadini russi – moltissimi i giovani – sono scesi in piazza per protestare contro Putin. A lui si era rivolto anche Mikhail Gorbaciov, invitandolo a “celebrare di nuovo le elezioni”.

Le cariche della polizia in assetto antisommossa e gli arresti di alcuni dissidenti di spicco, tra cui il blogger nazionalista anticorruzione Aleksei Navalny – rilasciato dopo due settimane di prigione – non hanno però fiaccato la protesta. Anzi. Domani a Mosca e in altre città del Paese sono previsti nuovi cortei contro l’inquilino del Cremlino. La grande incognita che pesa sulla partecipazione è il tempo: nel week end a Mosca si prevede che la temperatura scenda fino a -25, troppo per manifestare, forse, anche per gli standard russi. L’obiettivo dei movimenti è impedire che Putin venga rieletto presidente alle prossime elezioni, previste per il 4 marzo. La Costituzione russa prevede che un presidente non possa fare più di due mandati consecutivi, e Putin ha aggirato l’ostacolo normativo grazie alla staffetta con Medvedev: se Zar Vladimir vincerà le elezioni, come del resto previsto da tutti gli esperti di cose russe, Medvedev tornerà a fare il primo ministro. Magari fino alla prossima staffetta elettorale.

Tra i giornalisti stranieri a Mosca,  però, circolano anche analisi di più ampio raggio. Molti fanno notare che di fronte alle proteste dei cittadini russi, le più grandi degli ultimi anni, la reazione occidentale è stata piuttosto tiepida. Qualche comunicato di sdegno e rammarico, certo, e la “preoccupazione” espressa dalla Casa bianca, dall’Onu e dall’Ue. Nulla di più. Il perché di questa quiete che a molti è sembrata innaturale andrebbe cercato altrove, in particolare a Damasco e a Teheran.

Mosca infatti continua a tenere duro sul testo della risoluzione Onu, chiesta anche dalla Lega Araba, che condanna il regime di Damasco e su una nuova stretta delle sanzioni internazionali contro l’Iran per il dossier nucleare. Lo scambio di cui si mormora a Mosca è che l’Occidente potrebbe chiudere un occhio sulle possibili irregolarità elettorali del prossimo 4 marzo, nonché su un certo livello di repressione del dissenso in Russia, in cambio del via libera per una soluzione in Siria e in Iran: sanzioni più dure contro Teheran, un esilio più o meno dorato per Bashar Assad finalmente convinto a mollare la presa. La linea rossa della diplomazia russa sarebbe l’intervento militare diretto, a cui Mosca rimane assolutamente contraria.

L’equazione reggerebbe, in puro stile realpolitik. Ma manca un’incognita essenziale: i russi. Se e quanto i cittadini della Federazione saranno disposti a sacrificare i propri diritti sull’altare dei compromessi internazionali è oggetto di congetture e ipotesi, specialmente dopo l’esperienza delle Primavere arabe. Lo striscione sul Cremlino, quindi, ricorda a tutti, da Mosca a Washington, che le sorprese potrebbero non essere ancora finite.
di Joseph Zarlingo

Articolo Precedente

Spagna, arrivano gli indignati over 60
Pensionati, ma ultra tecnologici

next
Articolo Successivo

Il Pakistan fa spallucce sul dossier Nato
che lo accusa di sostenere i talebani

next