Ci sono oltre 5 miliardi di utilizzatori di telefoni cellulari del mondo. È probabilmente l’apparecchio elettronico più diffuso e sicuramente quello a cui siamo più esposti. Gli italiani hanno da sempre un record, che mantengono e aggiornano: la penetrazione dei cellulari. E’ del 150 per cento, ovvero ce n’è 1,5 per persona. E ora hanno anche quello degli smartphone: rispetto alla popolazione nessuno ne ha tanti come noi. A leggere sui giornali della pericolosità dei telefonini sembra essere sulle montagne russe. Un giorno fanno male, quello dopo non fanno niente, quello dopo ancora fanno bene al cervello. Leggendo i titoli dei giornali all’indomani del rapporto Interphone, uscito con drammatico ritardo nel 2010 perché gli scienziati di 13 paesi non trovavano un accordo sulla formulazione, sembrava di essere davanti non allo stesso studio, ma a studi opposti. Tutto perché il titolo diceva “non provato il rapporto tra cellulari e tumori” mentre già nell’abstract e soprattutto in un’appendice sulle prime tenuta nascosta si diceva che dopo 10 anni il rischio raddoppiava. Ma tra “Nessun rischio” e “Non si riscontra rischio prima di 10 anni” c’è una bella differenza.

Mai come in questa storia ci sono numerosi conflitti di interesse in azione. Per primo quello dell’industria che, come tutte le industrie, fa di tutto (come dimostra la controffensiva dopo il “caso Larry King”) per neutralizzare i danni alla sua immagine promuovendo informazioni contrastanti rispetto a quelle allarmanti. Poi la scienza che, sempre più bisognosa di fondi, non vuole mordere la mano di chi la nutre (uno studio dimostra come, se i finanziamenti sono industriali, la probabilità di riscontrare un rischio sia del 27% contro il 68% se i fondi sono invece indipendenti). E ancora, i governi che, in tempi di crisi, non se la sentono di mettere i bastoni tra le ruote di un’industria che paga loro dei bei soldi facili. Nell’ultima asta per le frequenze il governo italiano ha intascato circa 3 miliardi di euro vendendo le licenze per lo spettro. Aria, insomma. Non è tutto. Ci sono i media, che spesso campano anche grazie alla pubblicità dei telefonici (in Italia tra i 10 principali investitori pubblicitari, quattro sono telefonici). Infine noi, gli utenti, che non vogliamo certo ammettere che il nostro giocattolino preferito ci possa fare male, ci stia tradendo.

Ecco un estratto dall’introduzione di “Toglietevelo dalla testa”, di Riccardo Staglianò (Chiarelettere), pubblicato venerdì 27 gennaio sul Fatto Quotidiano:

La penultima volta che ho letto le istruzioni è stato quando ho comprato il mio primo cellulare. Doveva essere il 1993. L’ultima volta che ho ripreso in mano un libriccino del genere, invece, coincide con il momento esatto in cui ho deciso di scrivere questo libro. Poco più di un anno fa. Non tanto perché il mio splendido iPhone fosse troppo complicato da usare, ma perché mi avevano raccontato una cosa alla quale non potevo credere. Così ero andato a verificare nel manualetto più smilzo ed elegante della storia della telefonia. A pagina 7 della Guida alle informazioni importanti sul prodotto, nel capitolo “Esposizione all’energia a radiofrequenza”, dopo aver spiegato in dettaglio dov’erano collocate rispettivamente l’antenna per la voce e quella per i dati, c’era effettivamente scritto: “Quando usate l’iPhone vicino al vostro corpo per chiamate o per trasmissione dati attraverso una rete cellulare, tenetelo ad almeno 15 millimetri di distanza dal corpo e usate soltanto custodie, clip da cintura o fondine che non abbiano parti metalliche e che mantengano almeno 15 millimetri di separazione tra l’iPhone e il corpo”.

Dicevano, in pratica, che fra quel gioiellino di design e la mia testa doveva intercorrere lo spessore di un sigaro Cohiba o una moneta da un euro messa di piatto. Che è un po’ come se le istruzioni del vostro rasoio elettrico si raccomandassero di non usarlo a contatto con la pelle. O se sul flacone di smalto da unghie consigliassero di lasciar colare la tinta dall’alto e non spalmarla con il pennellino. Se no che poteva succedere? Tra gli smartphone, quanto a radiazioni, il mio non era neppure il peggiore. Il BlackBerry, apparecchio d’ordinanza dei manager e dei forzati dell’email in tempo reale, ne emetteva assai di più. La guida al modello Torch ammonisce: “Usate dispositivi hands-free (auricolari o vivavoce, nda) se disponibili e tenete il BlackBerry ad almeno 25 millimetri dal corpo (incluso l’addome di donne incinte e il basso ventre degli adolescenti) quando l’apparecchio è acceso e connesso alla rete”. Più sotto aggiungevano anche, come se niente fosse, di “ridurre la durata delle telefonate”. (…) Questo libro riguarda tutti, nessuno escluso. Ci sono attualmente nel mondo, ha calcolato l’ex dirigente Nokia Tomi T. Ahonen, 5,2 miliardi di schede telefoniche mobili attive. In cima a questa classifica ci stiamo noi. In Italia, confermava l’Eurostat ancora nel 2008 e un’indagine Ofcom alla fine del 2010, sono il 152 per cento (meglio, o peggio, di noi fanno solo gli Emirati arabi uniti, dove il rapporto è di due a uno). E chi vince nel campionato mondiale di chi possiede più smartphone rispetto alla popolazione? Avete indovinato. Sempre noi, indomiti acquirenti dei modelli più performanti e sofisticati. (…) Ecco, se fossero veri anche metà, ma diciamo pure un decimo, degli studi che segnalano rischi per la salute da un uso intensivo del cellulare, ci sarebbe da preoccuparsi non poco.

E purtroppo le sperimentazioni, gli articoli scientifici e le meta-analisi che lanciano l’allarme sembrano sempre più solide. Il loro limite, piuttosto, è di essere inevitabilmente in ritardo rispetto alla realtà. Dunque, se i pessimisti hanno ragione e la società diventerà sempre più wireless, i problemi non potranno che aumentare. Già oggi la maggior parte della scienza concorda nello stabilire un maggior rischio di cancro per chi ha usato il cellulare da mezz’ora al giorno in su, per almeno dieci anni. Non si tratta di un piccolo scarto. Per i gliomi, tumori maligni, nella più conservativa stima dell’Interphone, lo studio internazionale più ampio sull’argomento, si va da un + 40 per cento a un quasi raddoppio. Mentre nei risultati dello scienziato svedese Lennart Hardell il rischio diventa doppio per chi usa il cellulare per più di 30 minuti al giorno.

Ce n’è più che abbastanza per porsi delle domande e pretendere delle risposte. Il che significa anche ricordare le somiglianze storiche con altri allarmi lungamente inascoltati, primo fra tutti il rapporto tra fumo e cancro ai polmoni. Ci sono voluti quasi sessant’anni per provarlo. Ma le aziende lo sapevano da tempo. Fine della somiglianza, perché non ho la benché minima prova per sostenere che ora le aziende sappiano. Ciò che può restare identico, oggi come ieri, è il dubbio metodologico nei confronti di tutti, produttori di cellulari e operatori inclusi.

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