Di Ebreo, un thriller molto crudo – e davvero per stomaci forti – di un autore (o autrice…) canadese che utilizza da anni il nome di fantasia D. O. Dodd e che è stato pubblicato in questi giorni dalla milanese Leone Editore, mi hanno incuriosito, al termine della lettura, diversi aspetti.

Il primo è, appunto, il mistero sull’identità dell’autore il quale, a quanto pare, comunica solamente tramite posta elettronica, in maniera assolutamente anonima, ed evita accuratamente di presentarsi in pubblico al fine di non rivelare il suo vero nome. Non è una novità, per lui/lei: si comporta in questo modo sin dai due romanzi che hanno preceduto il successo di questo Jew. Sembra quasi che ci sia la volontà di far parlare “direttamente” i libri, anche se Dodd non disdegna brevi interviste (nel corso delle quali, però, più che dare risposte chiare cerca di alimentare ulteriormente il mistero). Questo Ebreo è certamente il romanzo che gli/le ha dato la notorietà in diversi Paesi, turbando molti lettori e attirando anche l’interesse di alcuni produttori hollywoodiani che, probabilmente, rappresenteranno presto sul grande schermo le vicende narrate nel thriller.

Ma non è finita qui: nel romanzo non ci sono nomi di persone, di città, di luoghi. Nessun nome, solo “la donna più giovane”, “il comandante”, “l’ufficiale anziano”. Tutti i nomi propri (e le identità) sono stati eliminati per dare un senso costante di dubbio, d’incertezza e di mistero.

Anche le connotazioni di luogo e di tempo non sono definite. Certo, il titolo Ebreo richiama subito momenti storici ben precisi, ma non vi è mai alcun riferimento all’Olocausto: le decorazioni delle uniformi sono solo “scintillanti” senza simboli riconoscibili, nessun Paese è identificato, tutto è lasciato all’immaginazione – o, in un certo senso, alla personalizzazione – del lettore. A volte l’autore aggiunge qualche elemento per confondere: una parola in arabo, un manganello o un’altra nota stonata che allerta chi sta leggendo.

L’identità, si diceva, è il motivo principale che domina tutta la trama. D’accordo, l’idea può sembrare abbastanza banale: un ebreo si salva da una fossa comune, in un incipit che tiene il lettore incollato alle pagine, raggiungendo faticosamente la superficie nuotando attraverso un mare di cadaveri, e ha la brillante idea d’indossare una divisa militare, trovata in una baracca, per invertire in un certo senso il tragico gioco delle parti e entrare così, però, in un gioco molto più grande di lui. In realtà, anche se il punto di partenza può sembrare poco originale, la descrizione di questo “viaggio” nei peggiori, e più violenti, aspetti dell’essere umano e della sua natura si sviluppa, nelle pagine seguenti, con un certo fascino e indubbio mestiere.

Il viaggio inizia nel momento in cui, si diceva, il superstite, uscito nudo da una fossa di oltre quattro metri piena di cadaveri, noterà, in una capanna, da una parte un mucchio di vestiti tolti ai cadaveri e dall’altra “una camicia nera, dei pantaloni anch’essi neri e una giacca con dei distintivi scintillanti sulle maniche”. Non avrà dubbi su quale scelta compiere, indossando la divisa, ma proprio da quel momento entrerà in un mondo fatto della peggiore burocrazia, anche militare, dell’ebbrezza del potere, anche nei confronti dei propri “simili”, del dubbio sulla propria identità (“non ho idea di chi io sia”) e della mancata consapevolezza di quale sia la parte giusta e quella sbagliata (significativo, su questo aspetto, il dialogo con una persona che conosce la sua vera natura: “Ma ora sei tu al comando” “Sì” “E allora cosa c’è di diverso tra voi due”).

L’atmosfera è, per molti versi, kafkiana. Le scene di violenza, di stupri e di necrofilia disturbano, e non poco. Angoscia anche questa sensazione di “sospeso” che lascia tutto indefinito, misterioso, mutevole. Sembra quasi che l’autore sia rimasto affascinato dalla tradizione della letteratura dei misteri e degli enigmi: punta a confondere il lettore, a non farlo sentire sicuro nelle sue convinzioni proprio quando è certo di aver compreso, per poi sorprenderlo

Ciò porta, in conclusione, alla non contestualizzazione della violenza (è sempre violenza!) anche quando il protagonista se la prende sia con i “perdenti” sia con i “vincenti”; lo stesso status di “ebreo” del protagonista è, in ogni pagina, in discussione, e lui stesso è confuso sino al finale.

Dodd cerca, è vero, di prendere un po’ in giro il lettore e di trarlo in inganno; in molti passaggi, però, il libro riesce a essere profondo, riflessivo e originale nei quesiti che pone.

D.O. Dodd
Ebreo
2012, Leone Editore
euro 15,00

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